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Blues brothers, l’eterno conflitto tra libertà e statalisti

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blues_brothers__2_di SERGIO RICOSSA

I due protagonisti del film, i fratelli Jake ed Elwood Blues, non sono stinchi di santo (il primo è appena uscito di galera); ma sono personaggi veri perché in loro il male e il bene si mescolano formando un cocktail tutto sommato accettabile.

L’uomo esclusivamente buono è rarissimo, ammesso che esista, e chi si autoproclama tale è quasi sempre un truffatore della peggiore specie. I nostri fratelli Blues, invece, sono truffatori, ma non della peggiore specie, e mai e poi mai si autoproclamerebbero perfetti. Ed essi hanno il grande merito, ai miei occhi, di satireggiare lo Stato sociale o welfare state che dir si voglia. I politici che applicano lo Stato sociale, a spese dei contribuenti, sono il più delle volte truffatori ben più pericolosi che non i Blues Brothers, ma non finiscono in galera. Anzi, viene lodato il loro senso di solidarietà, eccetera.

Il trucco di questi politici sta nel farci sembrare gratuiti i favori che promettono, mentre nulla è gratuito perché il fisco ci spenna con tasse e imposte banditesche. E’ così in Italia, ed è così perfino negli Stati Uniti, sebbene la pressione fiscale sia là inferiore alla nostra. Il film dei Blues Brothers racconta la storia di un orfanotrofio americano, l’orfanotrofio dove Jake ed Elwood sono cresciuti e hanno ricevuto una severa, ancorché solo moderatamente efficace, educazione da certe suore caritatevoli, a capo delle quali è sorella Mary Stigmata. I due fratelli vogliono bene a queste suore, nonostante le durezze con cui allevano i bambini orfani. Ma il “loro” orfanotrofio sta per chiudere. Perché?

Perché il fisco cosiddetto sociale lo ha caricato di insopportabili pesi tributari, come suole fare. O le monache trovano in poco tempo cinquemila dollari che devono al fisco, o il fisco sfratta monache e orfani, in nome della solidarietà. Il film è a lieto fine (è la realtà a non esserlo), i Blues Brothers riescono a ricostituire la loro banda, che suona il miglior jazz di Chicago, e con un unico, avventuroso concerto raccolgono i cinquemila dollari necessari per calmare la rabbia del fisco. Inseguiti da nugoli di poliziotti e alla fine da nugoli di sodati della guardia civile, i nostri eroi pagano il debito dell’orfanotrofio un secondo prima della scadenza, e l’ orfanotrofio è (temporaneamente) salvo.

Noi spettatori vediamo solo la prima battaglia, il primo scontro tra le monache e il fisco. Ma la lotta continuerà e il lieto fine è soltanto provvisorio. Ridendo e scherzando, ballando e cantando, i Blues Brothers sono protagonisti dell’eterno conflitto tra la libertà e l’ipocrisia dissipatrice del falso solidarismo pubblico. Sono dei libertari, come ancora si trovano in America, ma la cui razza da noi è in via di estinzione, senza che se ne preoccupino gli ecologisti, i “verdi”, il Wwf.

Il film di John Landis uscì in America nel 1980, un’America pronta e eleggere Ronald Reagan, che infatti l’anno successivo divenne presidente della grande nazione. E Reagan era stato un attore cinematografico, come John Belushi e Dan Aykroyd, gli interpreti dei due fratelli. Vale a dire: l’ industria dello spettacolo può dare una mano a correggere la politica più della scienza dei professori universitari. Per “vedere la luce”, come dicono i Blues Brothers, basta aprire gli occhi e il cuore, non servono i trattati di politologia.

TRATTO DA QUI

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