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Energia, non si confonda la politica con il mercato

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energia 4di MATTEO CORSINI

“È più profittevole oggi bruciare carbone o no? L’unico giudice è il mercato e Trump lo sa. Inoltre il trattato di Parigi del dicembre 2015 (Cop21) ha messo in moto una poderosa macchina degli investimenti in tutto il mondo: l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha calcolato in 45 trilioni di dollari (45mila miliardi) la cifra necessaria per la transizione energetica dai carburanti fossili alle energie rinnovabili. Perché l’asfittica economia mondiale dovrebbe rinunciare a tale enorme flusso di denaro? In cambio di un pianeta Terra che, in prospettiva, diventerà poco vivibile per usare un eufemismo”Vitaliano D’Angerio scrive su Plus24, il settimanale del Sole24Ore dedicato al risparmio. Come tanti, D’Angerio attribuisce al mercato dei comportamenti che sono pesantemente influenzati da provvedimenti politici.

Premetto che non voglio entrare nel ginepraio delle discussioni sul riscaldamento globale. Mi interessa solo evidenziare che le decisioni politiche non devono essere attribuite al mercato. L’unico giudice sarebbe il mercato se lasciato lavorare come originariamente si è sviluppato, ossia come ordine spontaneo. Ma in diversi casi la realtà è ben diversa. Per esempio, il mercato non avrebbe bisogno di alcuna Agenzia internazionale dell’energia, né di trattati tra stati come il Cop21.

La cifra di 45mila miliardi di dollari di investimenti in energie rinnovabili, ammesso che sia attendibile, non credo sia definibile come una scelta di operatori priva di condizionamenti esogeni. Al contrario, la si ottiene mediante la combinazione di tassazione e incentivi, con i quali da un lato si penalizzano i carburanti fossili e dall’altro si sussidia la produzione di rinnovabili. E’ totalmente fuorviante il messaggio in base al quale pare che il passaggio alle rinnovabili consenta di avere la botte piena e la moglie ubriaca, mentre il contrario lascerebbe il pianeta più inquinato, rinunciando a tanti investimenti.

Ma chi decide e come sono decisi quegli investimenti? Soprattutto, come sono finanziati? Questi sembrano non essere interrogativi degni di attenzione per D’Angerio (che, peraltro, è in folta compagnia).

Anzi, a suo dire al primo si può rispondere così: “C’è poi il secondo elemento: il potere degli investitori, grandi e piccoli. A metà novembre, 400 tra aziende e organizzazioni no profit, hanno scritto a Trump affinché dia il suo sostegno agli obiettivi del trattato di Parigi sul riscaldamento globale. Tra i firmatari ci sono gruppi del calibro di DuPont, eBay, Nike, Monsanto, Tiffany, Unilever Allianz, Adidas, Gap e tanti altri (l’elenco completo è su www.lowcarbonusa.org). Oltre alle aziende ci sono anche gli investitori; in particolare i piccoli risparmiatori e gli iscritti ai fondi pensione di tutto il mondo. In Europa sono 75 milioni gli aderenti a tutte le forme pensionistiche Ue che gestiscono 2,5 trilioni di euro come emerge dalla relazione che accompagna la recente direttiva Iorp II sul settore. Un provvedimento che introduce in via volontaria i fattori climatici, sociali e di governance nella valutazione dei rischi da parte dei fondi pensione. Direttiva Ue e legge francese sulla transizione energetica, in vigore da gennaio, sono stati definiti come due provvedimenti storici per il radicamento di una struttura finanziaria ed economica più sostenibile (è quanto emerso nell’incontro di lunedì scorso nella Borsa di Milano fra manager di Ftse-Russell e investitori). Chi ha dunque maggior potere per rendere il pianeta Terra più vivibile: i risparmiatori piccoli e grandi, o Donald Trump”?

Non vorrei fare facili generalizzazioni, ma gli investitori grandi e piccoli agiscono in base a vincoli legislativi e incentivi economici. Nel caso delle rinnovabili ci sono entrambi gli elementi. Per cui non mi stupisce il fatto che grandi aziende si facciano belle spingendo per avere incentivi a usare e sviluppare le rinnovabili. Né mi stupisce che i risparmiatori e chi gestisce i loro quattrini siano tutti diventati ecologisti (a parole) in presenza di direttive che li spingono in tale direzione. Sarebbe bene, però, non attribuire al mercato esiti che dipendono da decisioni politiche.

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