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Contro l’autonomia? le argomentazioni indegne dei meridionalisti

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di MATTEO CORSINI

Mi sono già occupato a più riprese delle levate di scudi dei meridionali(sti) contro le prospettive di maggiore autonomia per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Finché le argomentazioni fanno riferimento al principio di solidarietà previsto dalla Costituzione, si può discutere quel principio (palesemente assurdo e destinato a ledere per definizione il principio di non aggressione, a mio parere), ma si deve riconoscere che chi vi fa appello non ricorra ad argomenti inesistenti. Ovviamente poi a qualcuno scappa la mano, e allora capita che si cerchi di giustificare l’opposizione all’autonomia con argomentazioni che riterrebbe indegne perfino un venditore di balsamo di tigre.

Per esempio, il meridionalista per antonomasia Adriano Giannola, presidente di Svimez, afferma:

Nel saldo tra entrate e spese pubbliche si omette di includere l’onere per gli interessi che lo Stato corrisponde ai titolari del debito pubblico (famiglie e imprese; banche, ecc) di quelle Regioni. Se al residuo fiscale si sottrae l’incasso degli interessi, la Lombardia passa dai 40 miliardi di residui pretesi a meno di 13 miliardi. Il Veneto e l’Emilia Romagna, da oltre 12 e oltre 11 miliardi a circa due”.

In sostanza, la remunerazione inerente somme prima risparmiate e quindi prestate allo Stato mediante acquisto di titoli del debito pubblico dovrebbe per Giannola essere detratta dalla somma algebrica che determina il residuo fiscale.

A costo di semplificare un po’, il debito pubblico deriva dalla accumulazione dei deficit di bilancio annuali, ossia dall’eccesso di spesa rispetto alle entrate (per lo più fiscali) che ogni anno caratterizzano il bilancio delle amministrazioni pubbliche. Ci sono anche altre voci che contribuiscono a spiegare le variazioni del debito (per esempio gli effetti economici delle operazioni in derivati, l’assunzione di passività in caso di salvataggi bancari o i proventi da eventuali cessioni di beni appartenenti alle pubbliche amministrazioni), ma identificare lo stock di debito attuale con l’accumulazione dei deficit pregressi rappresenta una buona approssimazione di quanto accaduto.

Dunque, se il debito pubblico deriva dall’accumulazione dei deficit annuali e se ogni anno le regioni in questione registrano più entrate che uscite, l’aritmetica sembrerebbe indicare che tali regioni portino un contributo migliorativo al calcolo del deficit, a parità di altre condizioni.

Se, poi, i cittadini di quelle regioni dedicano una parte dei loro risparmi all’investimento in titoli di Stato, non ha alcun senso pretendere che gli interessi su tali investimenti siano dedotti dal calcolo del residuo fiscale. Lo avrebbe solo se (peraltro sempre ragionando a livello macro) fosse possibile dimostrare che quella parte di debito pubblico è stata contratta per deficit prodotti in quelle regioni o per investimenti in deficit compiuti dallo Stato in quelle regioni. Circostanza che non credo sia dimostrabile.

Secondo Giannola, quindi, i risparmi investiti in titoli di Stato da parte dei residenti nelle regioni che chiedono maggiore autonomia dovrebbero essere una sorta di prestito non remunerato. Cosa che, per l’appunto, neppure un venditore di balsamo di tigre avrebbe la spudoratezza di affermare.

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