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Elezioni, niente aiuta a far la selezione come la delusione

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di ENZO TRENTIN

Lucio Anneo Seneca agli albori dell’era cristiana diceva: «È turpe dire una cosa e pensarne un’altra, ma più turpe ancora lo scrivere una cosa mentre l’animo te ne detta un’altra.», e Charlotte Brontë nella prima metà del XIX secolo osservava: «La coerenza è il primo dei doveri di un cristiano.» insomma, passano i millenni ma la delusione è un sentimento che non delude mai.

Tra i vecchi notabili democristiani soleva il vezzo di appiccicarsi dei soprannomi che ne sottolineavano le caratteristiche personali o i comportamenti politici. “Il divo” è un film biografico del 2008 scritto e diretto da Paolo Sorrentino, sulla vita del senatore a vita Giulio Andreotti fino agli anni novanta. In esso c’è un riferimento al napoletano (più volte Ministro) Vincenzo Scotti che viene appellato con il nomignolo di «Tarzan» per la sua disinvolta abilità a trasmigrare da una corrente democristiana all’altra. Nell’attuale “giungla politica” i funamboli sono talmente tanti che «Tarzan» non è più il re della foresta.

Vengono alla memoria cose come queste leggendo l’intervista a un giornale del presidente del Consiglio: Giuseppe Conte. Lo vediamo soprattutto dopo un anno e mezzo di governo Conte1 e Conte2. Infatti, in economia: nel primo semestre del governo Conte1, il Pil è sceso sotto zero, dopo che era stato positivo con il governo precedente (Gentiloni). Per il 2019, Conte aveva previsto un aumento del Pil a + 1,5%. Si è schiantato a +0,2%. Per il 2020 è previsto lo zero virgola qualcosa, cioè la stagnazione. Intanto il debito pubblico è aumentato nel 2019 e aumenterà nel 2020. Per chiarire: il debito pubblico è a carico dei contribuenti italiani. Per quanto riguarda, invece, la politica industriale: ci sono 150 tavoli aperti per le crisi aziendali. Si torna agli interventi statali su Ilva, Alitalia e banche, il che significa ancora soldi pubblici, cioè nostri.

E poi:in 8 mesi la povertà assoluta è diminuita del 60%.”. È la dichiarazione del presidente del Consiglio, «Giuseppi» Conte, nella conferenza di fine anno. È così? No! Una persona è povera assoluta quando manca di beni e servizi essenziali (acqua, cibo, vestiario, abitazione). L’Istat dichiara che nel nostro Paese ci sono 5 milioni di poveri assoluti. C’è chi contesta la definizione di povertà assoluta perché basata sulla autodichiarazione delle persone sui propri consumi, non sul reddito o sul patrimonio. Un esempio serve a chiarire: nel 2015, gli italiani che si dichiaravano nullatenenti sono diminuiti dal 70% al 14%, dopo che dalla autodichiarazione si è passati al controllo oggettivo. Nel Sud i nullatenenti sono diminuiti dal 90% al 20%.

Applicando un analogo ragionamento, ci chiediamo come ci possono essere 5 milioni di poveri assoluti e soltanto 2,4 milioni i percettori del Reddito di cittadinanza. Urge un controllo oggettivo sulle autodichiarazioni dei poveri assoluti. È altrettanto urgente verificare le dichiarazioni del premier Conte sulla riduzione del 60% della povertà assoluta. Non ci risultano statistiche ufficiali in questo senso. La povertà è un problema serio, e non può essere usato a fini propagandistici.

Passiamo ad osservare il comportamento politico del «bibitaro» che riuscì ad approdare in Parlamento al gridoVaffa…” a questo tipo di politica. In questi giorni abbiamo letto una dichiarazione del ministro degli Esteri Luigi di Maio [per inciso: in politica estera il governo Conte1 Conte2 è inesistente e quindi irrilevante, per cui nessuno consulta più i governi italiani, né i governi europei né quello degli Stati Uniti.], nella quale si scaglia contro «una società votata al liberismo sfrenato.» Insomma, un Di Maio pensiero (si fa per dire) che, oltre a cambiare nel tempo, non fa i conti con la realtà del nostro Paese. Infatti, se fossimo affetti dalla malattia del “liberismo sfrenato”, lo Stato, cioè noi, non avrebbe 2.400 miliardi di debito e la spesa pubblica in aumento a 895 miliardi nello scorso anno, attestandosi, così, al 49,1% del Pil.

La spesa per le pensioni arriverà al 15,8% del Pil. Le pensioni sono circa 18 milioni, delle quali 4 milioni, cioè il 28%, di natura assistenziale. Da rilevare che le pensioni attuali sono solo per il 4% contributive, ottenute in relazione ai versamenti effettuati; per il restante 96% (ivi compresi i parlamentari già in pensione) sono retributive, non collegate interamente ai contributi versati; la differenza la versa l’Inps, cioè lo Stato, o l’ente previdenziale di riferimento.

Gli ammortizzatori sociali sono una serie di misure che hanno l’obiettivo di offrire sostegno economico ai lavoratori che hanno perso il posto di lavoro o una diminuzione del reddito lavorativo (es. indennità di disoccupazione, cassa integrazione guadagni, indennità di mobilità). Il Servizio sanitario nazionale garantisce a tutti i cittadini – con le carenze che conosciamo – le prestazioni sanitarie, con buoni livelli di qualità, come riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità, dall’Ocse e dall’Eurostat. L’aspettativa di vita media è di 84 anni, tra le più alte al mondo. Nel 2019 la spesa sanitaria ha raggiunto i 117 miliardi ed è annunciata in aumento per i prossimi anni. Sono previsti contributi (ticket) per alcune prestazioni specialistiche, dai quali sono esenti particolari categorie, legate al reddito e alla patologia.

Siamo, dunque, il Paese del Bengodi? No, ovviamente! Sarebbe sciocco affermarlo, ma non siamo neanche nella giungla dove il più forte calpesta il più debole, come vorrebbe far credere Di Maio. Il gioco è fin troppo scoperto: questa è una “dicta blanda” per dirla alla sudamericana. Inoculare paura alla ricerca del consenso. Lo abbiamo constatato anche per altri argomenti. 

Dunque quel circa 50% degli aventi diritto che non si reca più a votare, di ragioni sembra averne parecchie. Ancor più ragioni, considerato che l’«uomo qualunque» non ha strumenti per opporsi a questo andazzo mantenuto grazie al “bombardamento mediatico” che i cittadini subiscono ad opera del principali mezzi d’informazione tutti controllati dal potere politico-economico. Né ci si può stupire che ci siano sempre più individui che pensano all’indipendenza dal paese di Arlecchino & Pulcinella.

Ma perché i politicanti si aggrappano all’unità nazionale (Art. 5 della Costituzione)? Perché più grande è uno Stato, più risorse esso controlla (e di conseguenza questi personaggi hanno maggiori possibilità di vivere di rendite politiche), e tanto maggiore è la sua capacità di imporre costi più elevati a coloro che potrebbero cercare di emigrare o di fuggire dal governo dello Stato centrale. Invece, in uno Stato come si deve, il rapporto tra diritti e doveri dei cittadini è equilibrato. Nessun diritto senza doveri, nessun dovere senza diritti. Chi deve sopportare le conseguenze di una decisione, dovrebbe poter partecipare alla sua realizzazione. Per esempio, in Svizzera, in primo luogo, i cittadini vivono in una democrazia consensuale, non una democrazia maggioritaria. In secondo luogo, il federalismo consente differenti soluzioni: un grande vantaggio rispetto a un modello centralista che non ammette varianti. In terzo luogo, gli elvetici hanno molti mandati da assegnare, soprattutto a livello comunale, dove deve iniziare l’integrazione. 

Sui benefici del federalismo Gianfranco Miglio sosteneva: «…I teologi e i moralisti della Cristianità medievale (e soprattutto i movimenti eretici della Padania) hanno insegnato per tempo che contro l’abuso del potere, del quale una sottospecie sono anche l’uso illegittimo delle risorse pubbliche e la dilatazione delle spese per rafforzare il potere di chi comanda, la comunità ha il diritto naturale di insorgere e di restaurare la giustizia violata, richiamandosi al diritto/dovere di resistenza. La sopportazione passiva e senza limiti, richiesta per tutelare un inesistente “interesse generale” o l’ ”ordine sociale”, non è degna di uomini liberi e apre le porte al dilagare inarrestabile di angherie e soprusi. Una società senza produttori diventa asfittica e prima o poi muore. Una società senza parassiti invece vive benissimo e fiorisce. Dobbiamo recuperare il patrimonio di studio e di azione comune, che è stato sprecato e interrotto in questi anni per cause futili di rivalità politica e di bassi interessi personali. L’alternativa è una decadenza senza fine, per la quale saremo tenuti a rispondere ai nostri figli e ai nostri nipoti.»

Anche l’economista austriaco Ludwig von Mises [VEDI QUI] capì i vantaggi di una secessione in modo frammentato, notando con approvazione la possibilità di consentire a province e villaggi la possibilità di secedere da uno Stato e unirsi ad un altro, o di rimanere indipendenti.  Scrivendo di libertà, Mises afferma che le nazioni non hanno il diritto di autodeterminazione, ma lo hanno i popoli, e incoraggia: «il diritto degli abitanti di ogni territorio per decidere sullo Stato a cui essi desiderano appartenere».

Si aggiunga che Allen Buchanan nel libro “SECESSIONE – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi” (© 1994 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano), nel Capitolo II, dimostra che un gruppo può lecitamente opporsi allo Stato con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello Stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, in assenza di una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento. In terzo luogo, ritiene che, a certe condizioni, un gruppo sia legittimato a secedere quando ciò risulti necessario alla tutela della sua particolare cultura o forma di vita comunitaria. Ciascuna di queste conclusioni rappresenta una brusca dipartita rispetto a quella che spesso viene ritenuta una fondamentale caratteristica dell’individualismo liberale: l’esclusiva preoccupazione per i diritti individuali e il conseguente insuccesso nel valutare l’importanza della comunità o dell’appartenenza al gruppo per il benessere e per la stessa identità dell’individuo.

La Sicilia è un caso emblematico, [VEDI QUI] di Regione a Statuto speciale: “L’Ars costa mille euro al minuto e 137 milioni all’anno. Più della Casa Bianca. Lavora 20 ore al mese”. E siccome il costante deficit è ripianato dallo Stato, sono i pagatori di tasse a pagare i privilegi siciliani. 

Anche guardando all’attualità internazionale che propone scenari di guerra in medioriente e altrove, per dirla con Don Lorenzo Milani: “Servono 20.000 San Marino” (Barbiana, 31 luglio 1966). «Gli imperialismi? Ci vorrebbero ventimila sammarini per eliminarli. Il mondo cambierebbe radicalmente in meglio, sarebbero protette le culture e le identità. Sostanzialmente sarebbe protetta anche la pace, perché le guerre diverrebbero guerricciole.»   

Se sono i popoli che hanno il diritto di autodeterminazione, è comprovato che i veneti sono un popolo antichissimo. Ma (Hai noi!) il popolo veneto non ha ancora trovato il bandolo della matassa. Sinora si sono affidati al «senatùr» (nomignolo spesso usato dispregiativamente) Umberto Bossi, dopo che il duo Marin-Rocchetta (i «padri padroni» della Liga Veneta) s’era fatto omologare dalla pseudo democrazia rappresentativa italiana. Né migliore fortuna sembrano avere con «Capitan Nutella» Matteo Salvini; ennesimo funambolo che passa dall’essere comunista padano, a sodale del Front National di Marine Le Pen, e dei neofascisti spagnoli di Vox. En passant, che dire di «Er Pomata» Luca Zaia (come lo avevano prontamente soprannominato i romani quand’era Ministro dell’agricoltura), indipendentista nel 2015, e nemmeno autonomista di successo nel 2020 per volere della partitocrazia.

E ancora: in molti ambienti indipendentisti veneti il Consigliere regionale Antonio Guadagnini, s’è guadagnato il nomignolo di «Tony carega» per non essersi sentito obbligato in un accordo politico-economico liberamente sottoscritto, dimostrandosi molto celere nel ricorrere alla giustificazione dell’assenza del vincolo di mandato: Art. 67 della Costituzione italiana, e Legge Regionale n. 5 del 16 gennaio 2012, Art. 1, Comma 3: “I consiglieri regionali rappresentano l’intera Regione senza vincolo di mandato.” 

E questo ci riporta al nocciolo della questione della democrazia rappresentativa. Infatti, se l’elettore attraverso il voto delega il proprio rappresentante a portare avanti i propri progetti o idee politiche, e tale rappresentante è svincolato dal mandato elettorale, allora perché votarlo? Così di eleggono i propri padroni, non certo i rappresentanti dei propri progetti politici. Come contro bilanciamento ci vorrebbero gli strumenti della partecipazione popolare previsti dalla carta Europea delle Autonomie Locali; ma questi sono stati prima introdotti (c’era l’obbligo) e poi depotenziati dalla partitocrazia che non ne ha l’interesse. Né le petizioni dei cittadini hanno avuto risposta: è dal 2015 che alla Regione Veneto [VEDI QUI] giacciono inevase le petizioni di varie associazioni. 

Se guardiano oltre l’uscio di casa, oltre un terzo del totale delle votazioni nazionali nel mondo si svolgono in Svizzera. Ad esse si aggiungono numerosissime votazioni regionali e locali. Ciò rappresenta un capitale di esperienza unico per lo sviluppo della democrazia mondiale. Tuttavia non dobbiamo confondere le elezioni con la democrazia. Hitler e Mussolini salirono al potere per mezzo di elezioni, e anche in URSS di votava, ma solo coloro che proponeva il partito comunista.

Nel Comune svizzero di Yverdon-les-Bains si è arrivati al sorteggio dei pubblici amministratori. Tramite una ricostituzione storica, il 6 Novembre 2019 il pubblico ha potuto rivivere un’elezione svoltasi quasi 250 anni fa a Yverdon: una procedura molto complessa, in cui il sorteggio era in primo piano [VEDI QUI]. In Svizzera, il popolo dovrà anche esprimersi su un’iniziativa popolare che chiede l’estrazione a sorte dei giudici della Corte suprema. Il 19 Settembre 2019 è riuscita la raccolta di firme per l’iniziativa popolare “Per la designazione dei giudici federali mediante sorteggio (Iniziativa sulla giustizia)”. Lo ha indicato la Cancelleria federale, precisando che le sottoscrizioni valide sono 130.100. e prontamente il 27 Novembre 2019 il Consiglio federale (i politici. Ndr) raccomanda di respingere l’iniziativa popolare. Spetterà però ai cittadini decidere e ai politici obbedire.

Ma torniamo al Veneto. Se da un lato l’intero Consiglio regionale nemmeno ha preso in esame le petizioni dei cittadini per il contro bilanciamento della democrazia rappresentativa con la democrazia diretta, dall’altro è utile sottolineare come Antonio Guadagnini sia il maggiore promotore (perché senza l’esenzione della raccolta firme a lui concessa, nemmeno si presenterebbero) del Partito dei Veneti. Un coacervo di sigle di sedicenti movimenti e partiti autonomisti e indipendentisti che hanno già dimostrato molta conflittualità per avere intenti e programmi diversi, oltre che contenere un numero incredibile di «Tarzan» che sono passati da un partito all’altro, a volte distruggendoli per costruirne altri ugualmente insignificanti. Ciò nonostante tutti questi disinvolti sono ora sicuramente accomunati nell’«assalto» per la conquista di una «carega» regionale. Ma par di capire che anche un solo sgabello andrebbe bene. E non importa che da circa 40 anni i veneti eleggano europarlamentari, onorevoli e senatori, consiglieri regionali, provinciali e comunali, come sindaci, presidenti di provincia e regione, senza che il progetto autonomistico, e a maggior ragione l’indipendenza si annuncino all’orizzonte. 

Orbene! Qui è necessario evidenziare un fatto incontestabile che dimostra come la politica del Partito dei Veneti non sia rispettabile. Affermano di perseguire l’autonomia come propedeutica all’indipendenza del Veneto. Sull’autonomia (peraltro non ancora raggiunta) sappiamo già che essa non sarà quella richiesta. Sull’indipendenza la Brexit è la prova documentale che l’autodeterminazione si esercita, non la si chiede allo Stato da cui si vuole differenziare. La Gran Bretagna non ha chiesto il permesso all’UE di sciogliere il suo vincolo. I politici britannici hanno chiesto al loro popolo cosa voleva, e una volta ottenuto l’esito per mezzo di un referendum, confermato nelle successive elezioni, hanno sostanzialmente detto all’UE: ce ne andiamo con le buone o con le cattive. Punto!

Ciò che i politicanti non hanno interesse a comprendere, perché troppi sono i vantaggi e i privilegi di coloro che vivono di rendite politiche, è che le riforme non le si chiede allo Stato da cui si vuole secedere. Come diceva (1600) Giordano Bruno: «Quando ho detto che i procedimenti usati dalla Chiesa non erano quelli degli Apostoli, poiché oggi si usa la forza e non l’amore […] quando ho detto questo, non avevo torto. Ho sbagliato quando ho creduto di chiedere proprio a Voi, di condannare un sistema di arbitrio, di sopraffazione, di violenza […] che mortificazione […] chiedere a chi ha il potere di riformare il potere! Che ingenuità!»

Non è un  caso che – ad oggi – ai veneti non sia stato presentato un progetto politico-istituzionale che conquisti le loro menti e i loro cuori. E pur tuttavia esso è necessario quanto l’individuazione di nuovo personale politico autoctono, perché come diceva il saggio: «Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta.»

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