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L’indipendenza del veneto potremmo già averla

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gonfalonevenetodi ENZO TRENTIN

Il miglioramento metodico dell’organizzazione sociale suppone uno studio preliminare approfondito del modo di produzione, per cercare di sapere da una parte che cosa ci si può attendere da esso, nel futuro prossimo e remoto, dal punto di vista del rendimento, dall’altra quali forme di organizzazione sociale e di cultura sono compatibili con esso, e infine come esso stesso può essere trasformato. Solo degli esseri irresponsabili possono trascurare un simile studio e tuttavia pretendere di dirigere la società; purtroppo è quel che succede ovunque, sia fra gli indipendentisti veneti sia altrove nel Belpaese. Non è raro constatare in spiriti assai grandi la confusione, a tutto vantaggio dell’inevitabile imprecisione del linguaggio; assorbiti dall’elaborazione di idee nuove, manca loro il tempo per sottoporre ad esame critico ciò che hanno scoperto.  

È ciò che sembra essere avvenuto in Veneto, dove una serie di pseudo leader si stanno cimentando in elezioni regionali che, sostanzialmente, non fanno che legittimare quel regime partitocratico che a parole vogliono superare. Costoro, più che mai esperti nella propaganda, sembrano carenti sul piano della progettazione e della corretta informazione. Accampano similitudini con l’indipendentismo scozzese e catalano, sottacendo bellamente le enormi differenze tra gli scozzesi che vantano di fatto una maggiore indipendenza di quella dell’attuale Regione Veneto, mentre non possono con sicurezza affermare d’avere – attualmente – il seguito popolare dei catalani.

In mancanza di ciò, pretenderebbero un voto “plebiscitario” alle imminenti elezioni regionali per addivenire: chi ad un referendum consultivo per l’indipendenza (Tsz!); chi per altre eclatanti azioni tese a riaffermare un’indipendenza che pubblicamente avrebbero già dichiarato circa un anno fa; chi non si sa bene per cosa fare, considerato che elettoralmente si sono affiancati allo “Zio Tom” Luca Zaia della Lega Nord che biascica di autonomia. Insomma si tratta solo di un’alleanza a puri fini elettoralistici: far valere di più i voti che prenderanno per poter banchettare a privilegi e lauti stipendi.

Eppure, in definitiva si tratta di conoscere ciò che lega l’oppressione in generale e ogni forma di oppressione in particolare al regime della produzione. Ma nonostante questa evidente esigenza, l’iniziativa della realizzazione di un “Libro Bianco” che contenesse le aspettative dei ceti produttivi è miseramente fallita per il narcisismo di alcuni, la voglia di protagonismo di altri, e la delusione delle decine e decine di attivisti che si erano prestati a questa operazione. Peraltro, i contributi che sono giunti in redazione, e puntualmente sono stati pubblicati in questo periodico indipendentista e altrove, da parte di alcuni gruppi o persone che chiesero l’anonimato per non generare futili antagonismi, sono rimasti lettera morta. A parte qualche commento più o meno favorevole, nessuno ha raccolto quelle “provocazioni” a fin di bene per farle proprie o implementarle. Eppure in questo stesso periodico si è arrivati a cogliere il meccanismo dell’oppressione, a comprendere in virtù di che cosa esso sorge, sussiste, si trasforma, in virtù di che cosa potrebbe forse teoricamente sparire.

Per secoli anime generose hanno considerato la potenza degli oppressori come una pura e semplice usurpazione, a cui occorreva tentare di opporsi o con la semplice espressione di una riprovazione radicale, o con la forza posta al servizio della giustizia. In entrambi i casi la sconfitta è stata sempre completa; e non è mai stata più significativa di quando ha per un momento assunto l’apparenza della vittoria, come è avvenuto per la rivoluzione francese, allorché si è assistito, impotenti, all’immediato insediarsi di una nuova oppressione, dopo essere effettivamente riusciti a far sparire una certa forma di tirannia.

Le cause dell’evoluzione sociale andrebbero ricercate unicamente negli sforzi quotidiani degli uomini considerati come individui. Questi sforzi non si dirigono certo a caso; essi dipendono, per ciascuno, dal temperamento, dall’educazione, dalle abitudini, dai costumi, dai pregiudizi, dai bisogni naturali o acquisiti, dall’ambiente circostante, e soprattutto, in generale, dalla natura umana, termine che probabilmente non è privo di senso, anche se difficile a definirsi. Ma, data la diversità quasi indefinita degli individui, dato soprattutto che la natura umana comporta tra l’altro il potere di innovare, di creare, di superare se stessi, questo tessuto di sforzi incoerenti produrrebbe in fatto di organizzazione sociale ogni sorta di cose, se il caso non fosse limitato in questo ambito dalle condizioni di esistenza alle quali ogni società deve conformarsi se non vuole essere o soggiogata o annientata. Queste condizioni di esistenza sono per lo più ignorate dagli uomini che vi si sottomettono; esse non agiscono imponendo agli sforzi di ciascuno una direzione precisa, ma condannando a essere inefficaci tutti gli sforzi rivolti in direzioni che esse vietano.

Nell’innovare non si può ignorare il nuovo potere feudale che ha il volto delle società transnazionali private. Ricordiamolo: le cinquecento più grandi società capitaliste transcontinentali del mondo controllano oggi il 52% del prodotto interno lordo del pianeta. Il 58% di queste società è originario degli Stati Uniti. Insieme danno lavoro all’1,8% della manodopera mondiale. Queste cinquecento società controllano ricchezze superiori a tutti i beni dei centotrentatré paesi più poveri del mondo messi insieme. Essendo depositarie delle più avanzate conoscenze tecnologiche, elettroniche e scientifiche, e controllando i principali laboratori e centri di ricerca del mondo, le società transcontinentali indirizzano il processo di sviluppo materiale della condizione umana. E i vantaggi che offrono a coloro che possono assicurarsi i loro prodotti e servizi sono indiscutibili. Ma il controllo privato che esercitano su prodotti e scoperte scientifiche per natura destinate al bene comune ha conseguenze disastrose, perché l’unico motore di questi nuovi feudatari è l’accumulo del massimo guadagno nel minor tempo possibile, la continua estensione del loro potere e l’eliminazione di qualsiasi ostacolo sociale che si opponga alle loro decisioni. Una domanda da porsi allora può essere: per questi potentati è più facile “comperarsi” il consenso dei partiti o dell’intera popolazione.

venetiI veneti che aspirano alla libertà dovrebbero impegnarsi semplicemente per la secessione, anziché nelle inutili elezioni dello Stato dal quale vogliono rendersi indipendenti. Alessandro Mocellin, esperto di diritto internazionale, in un recente intervento (si veda qui) conferma ciò che noi andiamo sostenendo da anni, laddove testualmente scrive: «…Ed è in realtà la stessa Corte Internazionale di Giustizia a confortare questa visione, proprio nel tanto citato e poco capito parere del 2010 sul Kosovo.

In tale parere, la Corte compie almeno tre asserzioni decisamente rilevanti: non vige in diritto internazionale alcun divieto di dichiarare l’indipendenza (par. 79 del Parere), la secessione non è in contrasto con il principio di integrità territoriale degli Stati (par. 80), ed infine che in diritto internazionale vige il principio di libertà (par. 56). In altre parole, come esattamente la Corte dice: In vero, è perfettamente possibile che un certo atto – come per esempio una dichiarazione unilaterale di indipendenza – non sia in violazione del diritto internazionale anche qualora non costituisca esercizio di un diritto da esso conferito” (par. 56 del Parere).

Tuttavia, […] queste affermazioni della Corte non riguardano il solo caso Kosovo, in quanto, come si evince della struttura del parere e come sostiene la Corte stessa, queste argomentazioni derivano dal diritto internazionale generale, e non certo dalla lex specialis sul Kosovo. La dottrina Kosovo, in altre parole, costituisce un precedente giuridico, in quanto tutte le argomentazioni chiave si basano solo ed esclusivamente sul diritto internazionale generale, pattizio o consuetudinario. Della specialità del caso Kosovo è dato conto nella seconda parte del Parere, giacché la Corte, molto saggiamente, ha tenuto le argomentazioni giuridiche generali nella prima parte e relegato quelle speciali sul Kosovo nella seconda parte (paragrafi 85-121), appositamente per evitare quella indebita confusione di piani sulla quale ingiustificabilmente tacciono troppi costituzionalisti e pure alcuni internazionalisti.

L’argomentazione sul valore generale di questi asserti è tale che alcuni autori, su tutti Tancredi, si sono spinti a determinare le caratteristiche della corretta procedura di secessione unilaterale in diritto internazionale.

Riassumendo, secondo il diritto internazionale, ai Veneti spetta il diritto-libertà di tentare la via dell’autodeterminazione anche fino alla completa indipendenza, coperto dal principio di libertà in diritto internazionale, dal generale principio di autodeterminazione dei popoli ed infine dall’assenza in diritto internazionale di alcun divieto di secessione.

Ecco allora che se risultassero reali i milioni di voti elettronici espressi all’incirca un anno fa a favore dell’indipendenza del Veneto, e se anziché materializzare decine e decine di riunioni nel territorio per comunicare la “possibilità” dell’indipendenza, ma in realtà per far fare “passerella” ad alcuni pseudo leader in vista delle imminenti elezioni regionali venete; se tali riunioni – dicevamo – fossero state spese ad illustrare un nuovo assetto istituzionale sul quale poggiare la richiesta dell’indipendenza; quest’ultima potremmo già dichiararla. Al contrario abbiamo una “lotta” elettorale di più sedicenti indipendentisti per conquistare una “carega” alla Regione Veneto con annessi privilegi e laute remunerazioni solo per alcune persone. Bene che vada (per loro), ovviamente!

Uno dei protagonisti nonviolenti della resistenza: don Giovanni Barbareschi [vedi qui], che ha militato col nome di battaglia di don Stefano, (tra l’altro ha salvato Indro Montanelli dalla condanna a morte per abiura del fascismo a seguito di un articolo su Benito Mussolini, conducendolo personalmente alla frontiera Svizzera), ha detto: «Non ci sono liberatori, ma solo uomini che si liberano».

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