giovedì, Marzo 28, 2024
8.5 C
Milano

Fondatori: Gilberto Oneto, Leonardo Facco, Gianluca Marchi

Nel solco di Barthes, frammenti di un discorso liberale

Da leggere

di PAOLO L. BERNARDINI

Chiunque appartenga alla mia generazione, coloro che sono nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta di un secolo che par trascorso da mille anni – o, dovrei scrivere piuttosto, chiunque conosca il pensiero del Novecento – avrà riconosciuto un riferimento familiare nel titolo di questo mio libro. Sono passati oltre quarant’anni dalla pubblicazione dell’opera di Roland Barthes (1915-1980) cui faccio esplicito riferimento nel titolo di questo volumetto. Ad essere esatti, essa uscì in francese nel 1977, e venne pubblicata in italiano nel 1979.

La lettura dei Frammenti di un discorso amoroso fornì, tra l’altro, una interpretazione indimenticabile – per quanto forse troppo concettuale – delle nostre primigenie pulsioni erotiche, e sentimentali, di adolescenti, di liceali di un’epoca, e di una temperie spirituale, che ci appare, ora e qui, come se fosse ad anni luce di distanza. E invece sono passati “solo” quarant’anni. In apparenza, nulla lega la semiotica e la filosofia erotica di Barthes al discorso liberale, che, personalmente, intrapresi solo vent’anni dopo. Eppure, un filo sottile unisce quei Frammentia questi, o, piuttosto, dal momento che di cosa affatto diversa si tratta, allo spirito di questi.

Cercherò di spiegarmi. In fondo, la libertà e l’amore sono inestricabilmente congiunti, e spesso, troppo spesso fraintesi. O semplicemente ignorati. Di questo, per quanto riguarda l’amore, s’avvide bene Barthes quarant’anni or sono. Ed infatti pose come prefazione alle sue ottanta figure amorose una breve epigrafe, che val la pena qui riportare, per le ragioni che illustrerò subito dopo:

  • La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?) ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione. Quest’affermazione è in definitiva l’argomento del libro che ha qui inizio.

Ma lo stesso, a ben vedere, non vale forse oggi per il “discorso liberale”, ovvero il discorso sulla libertà?

Accusato da ogni parte di tutti i mali del mondo, il liberalismo vive una vita clandestina (“La poesia – diceva un poeta del Novecento, Edoardo Sanguineti, non certo liberale – non è morta, ma vive una vita clandestina”), davvero “inattuale”. Ovvero “contro il proprio tempo” piuttosto che “fuori dal proprio tempo”, come definì l’inattualità Friedrich Nietzsche, quel Nietzsche che Barthes conosceva a perfezione.

Libertà e amore, amore e libertà, amore per la libertà. Come si attribuiva all’amore ogni significato, anche il più distorto, quando Barthes scriveva – ma anche oggi, in un universo di comunicazione erotico-sentimentale-pornografica mediatica su cui Barthes stesso, lo avesse solo conosciuto di sfuggita (purtroppo morì nel 1980), avrebbe potuto dire cose senz’altro illuminanti – così oggi tutti si dicono “liberali” (“innamorati”?), ma nessuno o pochi veramente lo sono. E pochi sanno che cosa sia il liberalismo, davvero.

Certamente, rileggere i Frammenti di Barthes dopo quattro decadi, quasi due generazioni, ne mostra anche l’invecchiamento. Almeno da un punto di vista: quell’“oggetto amato” è visto sempre e comunque da una prospettiva maschile, e squisitamente letteraria, per cui alla fine ora si leggono come un’esegesi “qualsiasi”, poniamo del Wertherdi Goethe, quelle interpretazioni “classiche” che, anche quando provengano dal mondo intellettuale inevitabilmente compromesso del comunismo – e penso naturalmente a Lukács, le cui pagine sul capolavoro dell’amor tragico sono finalmente perfettamente integrabili con quelle di Barthes – ancora molto hanno da dirci, anche soltanto via negationis.

Questi miei quattordici “frammenti di un discorso liberale” sono davvero frammentari, Barthes presentò così i suoi (che sono ottanta), ma in realtà il suo lavoro è una costellazione ordinata, quasi (quasi) un sistema di filosofia del sentimento amoroso, e semiotica del suo discorso, con tutti i limiti di cui ho parlato nel paragrafo sopra. Il mio libro, diversamente, è solo una semplice raccolta di scritti ove il liberalismo trova una dimensione applicativa, come ideologia, e non viene spiegato (non dico che cosa sia, dandolo in qualche modo per scontato). Per altro Barthes non dice mai che cosa sia l’“amore” e anzi, alla fine di una lettura ardua ma splendida, che cosa davvero esso sia non è chiaro, ma è piuttosto chiaro che cosa non è.

Lo stesso vale per il liberalismo. Risulta sempre difficile fissarlo in dogmi – anche se non è impossibile, ed è bene farlo – ma alla fine è più facile percepirne la presenza come metodo, come modo di procedere che si fonda su quel che la Scuola ha chiamato “individualismo metodologico”, che vede il suo nemico in tutte quelle costruzioni artificiali spacciate per naturali, come lo Stato, ma non solo lo Stato, che feriscono e uccidono l’individuo presentandosi come sue salvatrici. Ecco dunque che “amore” e “libertà” condividono lo stesso terribile destino: sono fragilissime cose, costantemente minacciate, conquiste effimere per loro stessa natura: eppure non smettiamo mai di ricercarle, disperatamente, e questo soltanto dovrebbe dire molto sul loro valore.

Il volume contiene dunque scritti che ricordano pensatori liberali come Carlo Antoni, o pensatori che furono in gioventù liberali (per poi rinnegare almeno parzialmente le loro posizioni originarie) come Vilfredo Pareto; ma contiene anche scritti che contrattaccano, per così dire, su diversi fronti: ad esempio confrontandosi con un papa Francesco, che sembra ostile al liberalismo sotto ogni punto di vista, e con i sostenitori cattolici e più in generale cristiani del libero mercato. Ma si parla anche di stragi (la Valtellina) più o meno legate alla (mala) azione dello Stato, e di statalisti puri come Napoleone Bonaparte dal punto di vista della prassi politica effettiva, e Sismondi, dal punto di vista dell’elaborazione teorica dello statalismo.

Il saggio più lungo è dedicato alla figura del “giusto” inteso come campione, alla fine, di individualismo liberale nel senso migliore, non egoistico, del termine, come colui che rischia la vita propria e dei propri familiari non alla fine contro un male astratto, ma contro il Male, per eccellenza, compiuto dagli Stati e per gli Stati (occorre sempre ricordare che la Shoah non fu un’impresa privata, opera di capitalisti). Con il paradosso che poi sono gli Stati, ed uno in particolare, Israele, a convertire quanto di più antistatalistico vi fu, il gesto del Giusto, in icona morale, per certi aspetti a proprio uso e consumo. Come i poveri combattenti in battaglia divenuti “martiri” nel perverso processo di secolarizzazione, ovvero appropriazione e divulgazione, di una figura che appartiene a confini affatto extra-statali, ed extra-politici.

L’ultimo saggio è dedicato a Giovanni Gentile, e alla sua nefasta eredità statalistica, che, in coerenza con il personaggio, affidò al proprio testamento spirituale, il volume, scritto in poche frenetiche settimane, poco prima di una morte quasi attesa, quasi prevista, Genesi e struttura della società. Il saggio che chiude questo volumetto apre anche, prospetticamente, alla riscoperta, cui mi sto adoperando, di un pensatore invece foriero di un genuino individualismo metodologico, senza essere un seguace del liberalismo classico o del pensiero libertario. Si tratta di Mario Manlio Rossi (1895-1971), filosofo, storico, letterato, scrittore e traduttore, nativo di Reggio Emilia (nella città emiliana è conservato un suo vastissimo archivio). Ma se il pensiero e la figura di Rossi sono caduti in un immeritato oblio – come accade a tutti i veri eretici finché non sono riscoperti, nella loro quota di amore per la libertà – lo statalismo gentiliano, magari deprivato della gabbia idealistica in cui Gentile lo aveva ricondotto, ancora trionfa, in infinite vesti, sotto infinite maschere, nel discorso politico e ideologico contemporaneo. Chi sparò a Gentile forse per sgravarsi l’animo mentre la mano stava puntando la pistola contro un vecchio, inerme professore stanco e sovrappeso, l’ultima ruota del traballante carro della RSI, affermò: “Uccido le idee, non l’uomo”, ma le sue idee sono ben vive, purtroppo, e le pallottole andarono contro l’unico oggetto che possono davvero distruggere, l’individuo. Come Kraus, è salutare scendere all’inferno a giudicare i vivi e i morti, soprattutto se i morti non sono ancora morti davvero.

Nel congedare per le stampe quest’opera, mi auguro, come sempre, che il lettore trovi stimolo per riflessioni, ripensamenti, letture e riletture. Il liberalismo, sempre minacciato e in grave crisi, potrebbe improvvisamente risorgere, in modi e forme inattese. La Catalogna è in fermento, così come il Kurdistan (cui è dedicato il settimo scritto, o frammento, qui presentato), così come lo sono Venezia (cui è dedicato il nono frammento) e la Sicilia, anche se naturalmente in misura minore rispetto alla Catalogna e al Kurdistan. La nascita di nuovi “piccoli Stati” potrebbe essere un trionfo per il pensiero liberale, nella misura in cui la libertà di scelta non di un individuo, ma di popoli e/o collettività intere viene omaggiata; sperabilmente poi i nuovi stati che (forse) nasceranno omaggeranno ulteriormente la libertà dandosi una forma leggera e limitata. Il liberalismo auspica la riduzione, in ogni modo e forma possibile, dello Stato, sognando e teorizzando la sua progressiva, tendenziale dissoluzione.

La libertà potrebbe così donare legittimità alla propria vita clandestina. Quella “vita clandestina” che Barthes negli anni Settanta di un secolo trascorso da poco ma che pare lontanissimo vedeva come propria dell’amore.
Libertà e amore non muoiono mai, infatti, e spesso si coniugano in amore per la libertà, il più nobile e alto di tutti.

Como, Università dell’Insubria, 7 Giugno 2018

——————————————————–

TITOLO: FRAMMENTI DI UN DISCORSO LIBERALE

COLLANA QUISQUILIE

ISBN 978-88-97273-41-7 

Ordinalo a LIBRERIA DEL PONTE

Correlati

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Articoli recenti