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Quando papa bergoglio vaneggia di “giusto salario”

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bergoglio 2di GIOVANNI BIRINDELLI

In un discorso in cui dimostrava di non sapere cos’è il denaro e in cui, come ogni bravo socialista, predicava il «bene comune», Papa Bergoglio ha invitato i datori di lavoro a pagare «più giusti salari».

Ora, dai pochi sostenitori della libertà e dell’unico sistema economico con essa compatibile (il capitalismo) è spesso sostenuto che il concetto di salario “giusto” non ha, da un punto di vista della scienza economica, significato alcuno. Non sono necessariamente d’accordo.

Il termine “giustizia” può infatti riferirsi a due cose diverse e anzi opposte l’una all’altra. Da un lato, può riferirsi a una situazione particolare desiderata da qualcuno, per esempio una di maggiori salari per i lavoratori dipendenti. L’uso del termine “giustizia” in relazione a una particolare situazione desiderata implica che una situazione particolare diversa da questa (per esempio una con salari minori di quelli desiderati da qualcuno, p. es. dal sindacato o da un Papa) sarebbe “ingiusta”. E un’ingiustizia richiede di essere corretta, per esempio col ricorso alla coercizione statale. In altri termini, quando, in relazione a qualsiasi prezzo o compenso, si parla di “giustizia” riferendosi a una particolare situazione desiderata, si sta ragionando in termini collettivisti, e quindi totalitari e anti-economici: si sta mostrando di avere una concezione piramidale della società in cui il “bene”, cosa è “giusto”, viene deciso arbitrariamente da qualcuno (che sia la maggioranza, un Papa o un dittatore non fa alcuna differenza) e imposto a tutti gli altri con la forza.

I sostenitori della libertà hanno quindi ragione ad affermare che, quando la “giustizia” di un compenso o di un prezzo è intesa come situazione particolare, i termini “giusto salario”, “giusto prezzo”, “giusto profitto” ecc. non hanno alcun significato: dato che l’economia è la scienza che studia l’azione umana, un prezzo ha significato economico se è il risultato delle libere azioni delle persone, ma non ne ha alcuno (ha per esempio significato politico) se è risultato di un’azione coercitiva mirata a sopprimere, vietare, indirizzare o in qualche modo influenzare queste azioni.

Tuttavia, il termine “giustizia” può riferirsi anche a una cosa completamente diversa da una particolare situazione desiderata. Può riferirsi infatti, e più correttamente, al processo mediante il quale una qualunque situazione particolare, negativa o positiva che sia a seconda dei diversi punti di vista, si è venuta a creare. Per esempio, se un compenso per un lavoro è frutto di uno scambio puramente volontario fra le parti (il che implica l’assenza di qualsiasi regolamentazione del mercato del lavoro al di là della Legge intesa come regola generale e negativa di comportamento individuale valida per tutti, stato per primo, allo stesso modo; ed esistente indipendentemente dalla volontà di chiunque, in particolare della maggioranza), allora quel compenso è “giusto”, indipendentemente da quanto alto o basso esso sia. Se viceversa, come avviene oggi legalmente, quel compenso è frutto di una pistola puntata alla testa allora, alto o basso che sia, è ingiusto. Più in generale, una qualunque situazione particolare è da ritenersi “giusta” se non è stata prodotta da coercizione illegittima, soprattutto statale. Nel fatto che un bambino stia morendo di fame accanto a un miliardario che spreca il proprio cibo ci può essere dell’orrore, ma non c’è niente di ingiusto. E dove i diritti di proprietà sono esplicitamente riconosciuti e difesi, lì si creano le situazioni migliori per combattere questo orrore negli unici due modi legittimi e sostenibili nel lungo periodo: il capitalismo, che crea e diffonde prosperità, e la solidarietà, che è tale solo se è individuale e volontaria.

Se, in relazione a un compenso o a un qualunque prezzo, si usa il termine “giustizia” in questo modo, allora “salario giusto” significa salario di mercato allo stesso modo in cui “salario equo” significa salario che è ottenuto nel rispetto dell’uguaglianza davanti alla Legge (intesa come sopra) e quindi, di nuovo, salario di mercato. Laddove la conoscenza della scienza economica fosse diffusa, il termine “salario di mercato” sarebbe più appropriato di “salario giusto”. Tuttavia, in una condizione come quella attuale in cui a essere diffuse non sono la scienza economica e la consapevolezza di cosa sia la Legge ma l’ignoranza della prima e l’accettazione acritica del positivismo giuridico, allora può essere opportuno ricordare ciò che nemmeno coloro che pontificano di “giusti salari” avendo in mente salari maggiori riescono coerentemente a negare: e cioè che la giustizia non sta in una situazione particolare ma nel processo mediante il quale questa situazione particolare, qualunque sia, si è venuta a creare.

Qualcuno potrà obiettare che nel passaggio citato Bergoglio ha invitato le imprese a dare volontariamente un “giusto” salario: egli non ha invitato gli stati ad adottare misure redistributive e simili (sebbene mi risulti che faccia questo ad ogni occasione utile). Questa obiezione tuttavia è irrilevante: se per “giusto” salario egli avesse inteso il salario di mercato allora sarebbe stato assurdo invitare le imprese a dare un “più giusto salario”: una palla non ha bisogno di essere invitata ad essere soggetta alla forza di gravità. Se invece (come è stato) col termine “giusto salario” Bergoglio avesse inteso un salario maggiore di quello di mercato, egli avrebbe usato la sua influenza per rafforzare un’idea totalitaria di “giustizia” e l’ignoranza della scienza economica, e quindi per aumentare la povertà e il dolore soprattutto dei più deboli.

Bergoglio avrebbe potuto evitare di rafforzare un’idea totalitaria di “giustizia” e l’ignoranza della scienza economica invitando le imprese a fare la carità ai propri lavoratori. Nelle “democrazie” totalitarie, tuttavia, gli elettori vogliono avere “diritto” alla proprietà altrui e vogliono che questo “diritto” sia riconosciuto anche a livello semantico. Essi vogliono vivere alle spalle degli altri ma allo stesso tempo non vogliono perdere la loro “dignità”. Per questo, io credo, Bergoglio ha usato il lessico e l’intero paradigma anti-economico e totalitario dei socialisti di ogni colore politico: perché egli non è soggetto agli insegnamenti del suo Dio (che a quanto mi risulta non sono incompatibili col capitalismo) ma a quelli del moderno totalitarismo “democratico” (che invece sono del tutto incompatibili col capitalismo e quindi con la libertà).

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3 COMMENTS

  1. Mi permetto di aggiungere a quanto magistralmente esposto da Giovanni Birindelli, che lo svarione papale sul giusto salario deriva dall’ingenua convinzione, purtroppo di pubblico dominio, che il salario del lavoratore provenga dal profitto dell’imprenditore.

    E’ una sesquipedale sciocchezza.
    O meglio, è la verità nel caso in cui l’imprenditore sia un monopolista tutelato dalle leggi dello Stato oppure nel caso di un’economia statalizzata.

    In un’economia di libero mercato i profitti dell’imprenditore sono calmierati dai profitti degli imprenditori concorrenti nel suo settore. Il singolo datore di lavoro deve quindi disputarsi i lavoratori più produttivi che lo possano aiutare a conquistare il favore dei clienti, e quindi a fare più profitto.

    In questa disputa per il lavoratore migliore sta l’aumento dei salari eil progresso delle nazioni. Infatti i lavoratori più ricchi sono sempre stati quelli delle economie meno regolate dallo Stato. Più libero mercato, maggiore crescita delle retribuzioni.

    Sfortunatamente Papa Bergoglio appartiene alla immensa schiera di ignoranti economici schiavi del modello superfisso, vale a dire il concetto secono cui la ricchezza che esiste è data (lui dirà da Dio, i marxisti diranno dalla natura) quindi, essendo una quantità data, se uno arricchisce qualcun altro deve impoverire.

    E’ naturalmente un’enorme stupidata smentita dai fatti perchè se così fosse, ad esempio, non si capisce come poco meno di sette miliardi di persone (e continuano a crescere) abbiano almeno tre pasti al giorno mentre qualche secolo fa, quando le risorse naturali erano quasi intatte e l’umanità era un frazione di quella di oggi, la gente moriva regolarmente di fame.

  2. Caro Giovanni Birindelli, ammiro sempre i tuoi articoli, tuttavia quest’ultimo mi ha lasciato dei dubbi. Premesso che personalmente non ci tengo a difendere il papa in quanto tale, essendo ateo e ritenendo il pontefice un uomo come gli altri, e che probabilmente lui intendeva davvero ciò che tu hai considerato.. provo a esporti i miei dubbi sul ragionamento generale. Forse li troverai un po’ ingenui o poco significativi, perchè sono sicuro di non saper esporre i miei pensieri con la stessa lucidità, semplicità, brillantezza, di cui tu sei capace..

    L’uso del termine giustizia in relazione a una particolare situazione desiderata implica che una situazione diversa da questa sarebbe ingiusta e andrebbe corretta tramite la coercizione statale? In realtà a rigor di logica non mi pare proprio così. Perchè dovrebbe discenderne automaticamente la coercizione statale?

    Considerazioni di giustizia non possono riguardare contemporaneamente le situazioni e i processi, i fini i mezzi?

    Cioè non posso dire che non è giusto che il ricco se ne freghi del povero e contemporaneamente che non è giusto che lo stato intervenga con la violenza a (cercare di) cambiare la situazione?

    Posto che non trovi giusta una certa situazione e ne trovi giusta una diversa, perché dovrei esaurire qui il mio discorso etico? Può darsi che non tutte le vie che conducono dalla prima alla seconda situazione mi appaiano giuste. Non potrei continuare dicendo che non tutti i mezzi per passare dalla prima situazione ingiusta, alla seconda situazione giusta, sono giusti? (può darsi persino che non esistano mezzi giusti per passare da una situazione ingiusta a una giusta)

    Venendo poi al mercato.. il rispetto della giustizia come processo, cioè il libero scambio capitalista, consente vari esiti, che nel tuo ragionamento mi pare vengano tutti messi sullo stesso piano etico: tutti giusti. Ma ciascuno di noi secondo il suo senso di giustizia valuta diversamente questi esiti: non avvertiamo ugualmente giusto ogni libero scambio solo perché avviene per via volontaria, e di fatti non ci regoliamo, quando siamo noi stessi a scambiare, come se ogni scambio fosse eticamente identico.

    Il rifiuto della coercizione non esaurisce il discorso sulla giustizia. Posto che la coercizione va rifiutata, non ne deriva che ogni situazione in cui la coercizione è esclusa è giusta. Se la coercizione è ingiusta sembra logico dedurre che il suo contrario deve essere giusto, ma in realtà l’assenza di coercizione potrebbe essere necessaria, ma non sufficiente. Per cui la non-coercizione potrebbe non corrispondere a giustizia.

    Una persona in condizioni di estremo bisogno potrebbe accettare di fare un lavoro estremamente pesante per un salario estremamente basso, al limite della sussistenza. Sebbene il datore di lavoro non applichi costrizione certamente conta su una situazione disagiata per tirare il salario al minimo: rispetta la giustizia come processo, perché non usa violenza alcuna. Tuttavia un’etica cristiana (o altra) può trovare ingiusto questo suo comportamento, poiché essa non si esaurisce nella non aggressione, ma aggiunge a questo altri principi.

    Per esempio il fair trade rispetta la giustizia come processo ed è un fenomeno di mercato, ma si basa su dare un prezzo a considerazioni etiche ulteriori rispetto a quelle del semplice scambio volontario.

    • Caro Pietro Agriesti,
      grazie per il commento. Se la giustizia potesse essere riferita a una situazione particolare (o anche a una situazione particolare) allora non ci sarebbe limite alla coercizione che potrebbe essere esercitata su un individuo (come osserviamo oggi).
      In primo luogo, infatti, ogni situazione particolare definita come “giusta” sarebbe arbitraria. In secondo luogo, anche volendo, gli individui non potrebbero mai stare nella stessa situazione e quindi se la “giustizia” stesse in una situazione particolare essa non potrebbe essere uguale per tutti (non potrebbe valere il principio di uguaglianza davanti alla Legge). In altre parole, dato che gli individui sono tutti diversi l’uno dall’altro, se venissero tutti trattati allo stesso modo essi finirebbero in situazioni diverse: date le loro diversità individuali, l’unico modo di farli finire nella stessa situazione (ammesso per assurdo che fosse possibile) sarebbe trattarli in modo diverso, cioè violare l’uguaglianza davanti alla Legge. Una delle numerosa ragioni per cui non è logicamente possibile che la giustizia stia contemporaneamente nei processi e nelle situazioni è che non è logicamente possibile rispettare l’uguaglianza davanti alla Legge e violarla allo stesso tempo.
      Infine, un breve accenno al tuo ultimo esempio a proposito dell’imprenditore che si approfitta della situazione di disagio del lavoratore e “tira il salario al minimo”: nel fare questo, egli non solo sta rispettando la Legge e quindi sta agendo all’interno dei confini della libertà, ma soprattutto sta svolgendo il ruolo essenziale che ogni agente economico necessariamente svolge nell’ordine spontaneo del libero mercato (inclusa Madre Teresa di Calcutta e il lavoratore che cercherà di sfruttare la condizione di bisogno del datore di lavoro per “tirare il salario al massimo”): usare la propria conoscenza, le proprie capacità e i propri beni in funzione del massimo profitto, il quale include, naturalmente, anche il “psychic revenue”. Se si impedisse agli agenti economici di sfruttare le difficoltà altrui a proprio vantaggio i prezzi non potrebbero emergere e il sistema economico crollerebbe (e quel lavoratore probabilmente, invece di avere un salario al limite della sussistenza o comunque per lui conveniente data la sua situazione, altrimenti non lo avrebbe accettato liberamente, morirebbe di fame).
      Un saluto,
      GB

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