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I successi della scuola austriaca e i fallimenti keynesiani (1ª parte)

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keynes-hayekdi GUGLIELMO PIOMBINI

La crisi del ’29 travolge Keynes

Durante i “ruggenti anni Venti” John Maynard Keynes e i maggiori economisti del tempo magnificarono fino all’ultimo il boom economico degli Stati Uniti e l’operato della Federal Reserve. A loro avviso non c’erano pericoli di crisi perché i prezzi dei beni al consumo erano stabili e la banca centrale controllava la situazione. Nel 1926 Keynes incontrò il banchiere svizzero Felix Somary per decidere un grosso investimento azionario. Somary, che aveva studiato a Vienna e conosceva le teorie della scuola austriaca, gli manifestò i suoi dubbi sulla sostenibilità del boom in corso. Somary infatti liquiderà i propri investimenti prima del crollo delle borse, salvando le proprie fortune. Keynes però gli ribatté con decisione: «Non avremo più dei crash nella nostra epoca» [1].

Nel 1928 Keynes scrisse due saggi nei quali contestava l’idea che a Wall Street si stesse manifestando una “pericolosa inflazione” nel valore dei titoli: «Non c’è niente in vista che possa essere chiamato inflazione» [2]. Commentando l’aumento vertiginoso dei prezzi degli immobili e delle azioni scrisse che «oggi sarebbe prematuro affermare l’esistenza di un sovra-investimento» e che una crisi era improbabile dato che la Federal Reserve avrebbe fatto «tutto ciò che è in suo potere per evitare una depressione economica» [3]. Queste sue previsioni ottimistiche si rivelarono completamente errate, e con il tracollo della borsa dell’ottobre 1929 perse i tre quarti dei suoi investimenti. Ammetterà poi di essere stato ingannato dalla stabilità dei prezzi al consumo e di aver sottovalutato l’inflazione dei titoli azionari [4].

Gli economisti austriaci presagiscono l’arrivo della crisi

In quegli anni vi fu però una scuola di economisti che ebbe sentore del collasso del mercato e di una possibile depressione mondiale. Le loro previsioni si basavano sulla sofisticata teoria del ciclo economico elaborata da Ludwig von Mises nel libro del 1912 Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione, e perfezionata da Friedrich von Hayek. Mises sosteneva che l’inflazione monetaria non era neutrale per il sistema economico, ma creava una serie di instabili squilibri strutturali [5]. Già nel 1924 si era convinto che la volontà della Federal Reserve di espandere il credito e ridurre i tassi d’interesse aveva creato un boom artificiale che non poteva durare, e che una severa depressione a livello mondiale era inevitabile. Il suo allievo Fritz Machlup ricordò che quando passavano davanti al Kreditanstalt di Vienna, una delle più grandi banche d’Europa, Mises gli diceva: «Ci sarà un gran botto» [6]. Nell’estate del 1929 quella stessa banca offrì a Mises un posto di alta responsabilità, ma egli lo rifiutò, spiegando a sua moglie: «Sta arrivando un grande crollo, e non voglio che il mio nome vi sia associato in alcun modo» [7].

Anche Hayek all’inizio del 1929 avvertì, pur con toni più sfumati rispetto a Mises, che ci sarebbero stati dei problemi nell’economia americana. Ad esempio, il 26 ottobre 1929 Hayek scrisse che «non è impossibile che sia arrivata la fine di questo incredibile aumento dei prezzi di borsa, i quali dovrebbero un po’ alla volta sgretolarsi» [8]. Il 28 e 29 ottobre 1929, il lunedì e il martedì nero, le quotazioni di Wall Street si schiantarono. Seguì una forte contrazione dell’economia e del commercio mondiale. Nel 1931 il Kreditanstalt di Vienna andò in bancarotta, contribuendo a diffondere la depressione in Europa. Nel 1934 Mises scrisse nella prefazione all’edizione inglese della Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione: «Come in tutti precedenti boom causati dall’espansione del credito, si credeva che la prosperità potesse durare per sempre, e gli avvertimenti degli economisti [austriaci] furono ignorati. Il rovesciamento del corso degli eventi nel 1929 e la conseguente severa crisi economica non sorprese gli economisti [austriaci]; li avevano previsti, anche se non erano in grado di predire la data esatta in cui si sarebbero verificati» [9].

Gli austriaci vincono la prima battaglia, ma Keynes vince la guerra 

Mises 4Nei primi anni Trenta, l’abilità nel prevedere la depressione portò gli economisti austriaci alla ribalta. Molti studiosi britannici e americani che cercavano una spiegazione del collasso economico del 1929-32 rivolsero la propria attenzione alle tesi della Scuola Austriaca. Lionel Robbins, direttore della London School of Economics, si recò a Vienna per partecipare al famoso seminario privato di Mises e invitò Hayek a tenere una serie di conferenze a Londra, con lo specifico obiettivo di combattere Keynes [10].

Nelle sue lezioni londinesi tenute nel maggio del 1931, raccolte nel libro Prezzi e Produzione, Hayek spiegò i motivi per cui la crisi era l’inevitabile conseguenza dell’insostenibile boom degli anni Venti. Robbins fu così entusiasta della spiegazione di Hayek da assegnargli la cattedra di economia alla London School of Economics, che divenne la roccaforte degli economisti favorevoli al libero mercato [11]. Keynes e i suoi seguaci diedero battaglia dall’università di Cambridge. Nell’ottobre 1932, i due gruppi rivali si scontrarono sulle pagine del Times. Keynes, Pigou e altri affermarono che l’eccesso di risparmio aveva provocato la crisi, mentre Hayek, Robbins e altri criticarono la spesa statale.

Alla lunga, tuttavia, i keynesiani vinsero la guerra delle parole, soprattutto dopo la pubblicazione della Teoria generale di Keynes nel 1936, che Hayek inspiegabilmente rinunciò a demolire. La tesi di Keynes prevalse per diversi motivi: da un punto di vista comunicativo, aveva il vantaggio di offrire una rapida ricetta contro la disoccupazione basata sulla spesa in deficit, mentre la politica non interventista consigliata dagli austriaci richiedeva tempo per dare risultati; in secondo luogo, Keynes offriva ai politici proprio quello che da tempo cercavano: una giustificazione apparentemente scientifica del loro inappagabile desiderio di spendere e ampliare il proprio potere; in terzo luogo, offriva agli economisti e agli accademici un ruolo importante come pianificatori ed ingegneri sociali.

Le fortune della Scuola Austriaca subirono così un drammatico rovescio. Tutti i più brillanti allievi di Hayek della London School, come John Hicks, Abba Lerner, Nicholas Kaldor, Kenneth Boulding, divennero accesi keynesiani. Perfino Lionel Robbins, negli anni successivi, abbandonò la barca che affondava. Hayek fu così depresso dal corso degli eventi che, a partire dagli anni Quaranta, decise di dedicarsi alla teoria politica e ad altri rami delle scienze sociali [12].

Diagnosi opposte, rimedi opposti

Keynesiani e austriaci davano valutazioni antitetiche sulle cause della crisi, e offrivano rimedi esattamente opposti. Keynes identificava tre cause della depressione:

1) La filosofia economica del laissez-faire che impediva ai governi di intervenire con decisione nell’economia;

2) Il sistema monetario basato sull’oro, la cui rigidità impediva ai governi di perseguire le politiche monetarie più appropriate;

3) I tassi d’interesse troppo elevati che avevano incoraggiato il risparmio anziché il consumo, riducendo così la domanda aggregata. Di conseguenza i rimedi dovevano basarsi sull’aumento della spesa pubblica, l’espansione monetaria e la riduzione dei tassi d’interesse.

Del tutto all’opposto, gli austriaci identificavano come cause della crisi:

1) L’eccesso di interventismo statale nell’economia;

2) La politica monetaria espansiva perseguita dalle banche centrali;

3) I tassi d’interesse tenuti artificialmente a un livello troppo basso.

Come soluzione alla crisi proponevano il non intervento dello Stato nell’economia, il ritorno al gold standard nella sua forma classica, e l’incentivazione del risparmio.

Si può notare che le soluzioni keynesiane corrispondono esattamente a quelle che gli austriaci considerano le cause delle crisi. Le politiche che secondo i keynesiani salveranno l’economia sono le stesse che secondo gli austriaci la distruggeranno, e viceversa!

La depressione dimenticata del 1920

1929Gli austriaci sostengono che, quando l’economia si trova in una fase recessiva, tagliare i costi è un rimedio molto più efficace di qualsiasi “stimolo” governativo. Risparmiare ed evitare le spese non indispensabili è il comportamento logico e saggio che di solito adottano gli individui, le famiglie e le imprese durante una crisi, e lo stesso discorso dovrebbe valere, a maggior ragione, per il governo. La posizione austriaca combacia quindi con il sano buonsenso comune. Nella visione keynesiana, al contrario, microeconomia e macroeconomia sono scollegate tra loro, perché il comportamento razionale del singolo – stringere la cinghia in tempo di crisi – paradossalmente diventa dannoso a livello collettivo: se tutti risparmiano, dice Keynes, l’economia non si riprende. Dal punto di vista austriaco, quindi, una delle cose migliori che possono fare le imprese per superare un periodo di recessione è quello di tagliare i costi aziendali superflui. Da questo punto di vista il governo può giocare un ruolo importante, in negativo, riducendo le imposte e le regolamentazioni burocratiche costose per gli affari.

Ci fu un caso in cui il governo americano reagì a una crisi esattamente in questa maniera, e il paese ne uscì in tempi rapidi. Il presidente Warren Harding entrò in carica nel 1920 nel mezzo di una severa recessione: rispetto all’anno precedente la disoccupazione era triplicata dal 4 al 12 per cento, mentre il pil era sceso del 17 per cento. Harding, sostenitore del laissez-faire, non utilizzò nessuno dei rimedi macroeconomici keynesiani (lavori pubblici, spesa in deficit, politiche monetarie inflazionistiche). Al contrario, decise di affrontare la recessione tagliando sia le tasse sia la spesa pubblica del 25 per cento. Il governo ridusse le aliquote fiscali per tutti i livelli di reddito, e attraverso la riduzione della spesa diminuì il debito pubblico di un terzo. Nell’estate del 1921 la ripresa era già arrivata. Nel 1922 la disoccupazione era scesa sotto il 7 per cento; nel 1923 era al 2,4 per cento [13].

La depressione del 1920 è un raro esempio in cui il governo adottò esattamente le strategie consigliate dalla Scuola Austriaca. È stata chiamata la “depressione dimenticata”, dato che non viene mai menzionata nei libri o nei discorsi politici: «Non c’è da meravigliarsi – osserva Thomas Woods – perché questo esempio storico sgonfia le ambizioni di coloro che ci promettono soluzioni politiche alle crisi economiche. Secondo l’opinione dominante, in assenza di misure governative “anticicliche” non possiamo aspettarci nessuna ripresa, se non dopo un tempo intollerabilmente lungo. Tuttavia durante la depressione del 1920-21 vennero adottate politiche esattamente opposte, e la ripresa non si fece aspettare» [14].

Le cause della crisi del 1929

Dopo il 1921, l’economia americana era tornata alla normalità, ma bene presto entrò in un boom inflazionistico sospinto dalle politiche monetarie della banca centrale. La Fed infatti intervenne più volte tra il 1922 e il 1927 a iniettare credito nell’economia, aumentando la massa monetaria del 55 per cento a un tasso annuo di crescita del 7,3 per cento. I prezzi dei beni di consumo rimasero stabili, e questo fatto ingannò i maggiori economisti. In realtà l’inflazione ci fu perché, con la produzione in pieno boom (petrolio + 12,6 per cento, auto + 4,2 per cento, prodotti industriali + 4 per cento), senza stimoli monetari i prezzi dei beni sarebbero calati notevolmente [15]. Il boom inflazionistico si manifestò comunque in maniera eclatante nel settore immobiliare (soprattutto in Florida e a New York) e finanziario (il valore medio dei titoli quadruplicò tra il 1921 e il 1929) [16].

Agli effetti negativi delle politiche monetarie e creditizie espansive si sommarono quelli della politica protezionista promossa da Herbert Hoover, uno dei presidenti più interventisti della storia americana [17]. Nel suo best-seller The Way the World Works Jude Wanniski ha confrontato giorno per giorno l’andamento di Wall Street con le votazioni sull’innalzamento delle tariffe protettive: ogni volta che la votazione faceva passi avanti, la borsa calava; ogni volta che l’iter legislativo si arrestava, la borsa si riprendeva [18]. La legge Smoot-Hawley, che aumentava notevolmente i dazi su moltissimi prodotti americani, venne infine approvata nel marzo 1930, pochi mesi dopo il crollo di Wall Street, che aveva già dato per certa la sua approvazione.

Questa misura contribuì in maniera decisiva al collasso del commercio internazionale, dato che molti altri paesi risposero con politiche analoghe. Nel 1932 il valore del commercio mondiale era calato del 60 per cento rispetto al 1928, e nel 1935 si ridusse ulteriormente. Si può quindi ritenere che furono due le cause principali della crisi del ‘29: la politica monetaria espansiva della Federal Reserve durante gli anni Venti, che aveva generato un boom insostenibile; e il nazionalismo economico, che fece collassare il commercio mondiale. Se le banche centrali avevano gonfiato la bolla finanziaria, le tariffe protezionistiche furono l’ago che la scoppiò [19].

FINE PRIMA PARTE – QUI LA SECONDA PARTE

NOTE

[1] Felix Somary, The Raven of Zurich, Londra, 1986 (1960), p. 146-147.

[2] The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. 13, Londra, 1973, p. 52, 59.

[3] Charles H. Hession, John Maynard Keynes, New York, 1984, p. 238-239.

[4] John Maynard Keynes, A Treatise on Money, Londra, 1930, p. 190-98.

[5] Mark Skousen, The Making of the Modern Economics, New York-Londra, 2001, p. 286.

[6] Fritz Machlup, “Tribute to Mises”, Mont Pélerin Society Proceedings, 13 settembre 1974, p. 12.

[7] Margit von Mises, My Years with Ludwig von Mises, Cedar Falls, 1984, p. 23-24.

[8] Monatsberichte des österreichischen Institutes für Konjunkturforschung, 3. Jahrgang, Nr. 10 (26 October, 1929), p. 182. Si tratta del bollettino dell’Istituto di Ricerca Economica Austriaca che Mises e Hayek avevano fondato a Vienna per monitorare gli avvenimenti economici europei. Hayek ne era il direttore.

[9] Ludwig von Mises, The Theory of Money and Credit, New York, 1971 (1934), p. 14-15.

[10] Mark Skousen, The Making of the Modern Economics, p. 294-295.

[11] Robbins fece anche tradurre in inglese Teoria della moneta di Mises e scrisse egli stesso un libro sulle cause e le cure della depressione su fondamenta austriache, nel quale spiegò che la depressione non era causata dal capitalismo, ma dalla sua negazione: era dovuta alla cattiva gestione monetaria e all’interventismo statale, in un ambiente nel quale la forza essenziale del capitalismo era già stata fiaccata dalla guerra e dalla politica (Lionel Robbins, Di chi la colpa della grande crisi? E la via d’uscita, Torino, 1935 (1934)).

[12] Questo dibattito epocale viene raccontato da Nicholas Wapshott nel libro Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna, Milano, 2012 (2011).

[13] James Grant, The Forgotten Depression. 1921: The Crash That Cured Itself, New York, 2014. James Grant ha presentato il suo libro nell’articolo “The Depression That Was Fixed by Doing Nothing”, Wall Street Journal, 2 gennaio 2015 (traduzione italiana di Luca Fusari: La depressione economica del 1920-21? Superata senza stampare denaro, Il Miglioverde, 2015).

[14] Thomas E. Woods jr., “Warren Harding and the Forgotten Depression of 1920”, Intercollegiate Review, autunno 2009 (traduzione italiana di Francesco Simoncelli: La depressione dimenticata del 1920, Freedonia, 2014)

[15] Thomas E. Woods jr., Meltdown, Washington, 2009, p. 96.

[16] Mark Skousen, Vienna & Chicago. Friends or Foes?, Washington, 2005, p. 175.

[17] Come documenta Murrray N. Rothbard, La Grande Depressione, Soveria Mannelli, 2006 (1963), p. 319 ss.

[18] Jude Wanniski, The Way The World Works, Washington, 1978, p. 139-159.

[19] Harry C. Veryser, It Didn’t Have To Be This Way, Wilmington, 2012, p. 97-98.

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