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Tra i miti fascisti e quelli antifascisti

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di DIEGO GABUTTI

Miti e simboli sono una bella cosa, persino le polverose icone dei fascismi e dei comunismi, per quanto storicamente scomode e scalcinate: tengono il posto dei lunghi discorsi e delle spiegazioni troppo complicate. Uno li indossa, come maschere di carnevale o camice hawayane, e da quel giorno viene capito al volo: la sua identità si dichiara al primo sguardo. E fin qui tutto bene. Ma ogni storia ha due facce: la faccia pari è che le mitologie semplificano la vita, quella dispari è che rincoglioniscono chi le prende troppo sul serio e per esempio, come alcuni nostri lettori, s’indigna perché Mussolini Dux, uno dei personaggi più buffi, strambi ed esiziali del secolo, il primo dei boss totalitari in stile Dittatore dello Stato Libero di Bananas, è stato preso per il cecio in un articolo che mette in piazza le sue corna.

Si potrebbe raccontare la storia d’Italia nel XX secolo con un album Panini sul quale incollare, come tanti piccoli Veltroni festanti e giulivi, le figurine dell’interminabile baldoria politica nazionale: il mantello a ruota dei carbonari, la camicia rossa dei garibaldini, il fascio dei prodi squadristi, la falce e martello dei trinariciuti, su su fino al look incravattato dei liberaldemò da spot televisivo, l’ultima frontiera del travestitismo ideologico. Ma attenzione: ciascuna di queste figurine esige sacrifici, e per lo più si tratta di sacrifici umani.

Chi le rivendica non deve soltanto rinunciare, se ce l’ha, al suo «spirito critico», come si diceva una volta con espressione moscia. Deve dire addio anche al suo senso dell’umorismo, cioè a uno dei principali organi di senso, e sostenere a muso duro, come se ci credesse davvero, che va bene scherzare con i fanti ma guai a scherzare con i santi, quando tutti sappiamo benissimo che a scherzare con i fanti non c’è sugo, e che tirare giù i santi dalle loro nuvolette è il solo sport degno d’essere praticato, da liberi, in una società libera.

C’è un problema, insomma, con le identità indossate come maschere: finiscono per divorare chi le porta, come il velo del pastore nel racconto di Hawthorne. Simboli e miti hanno infatti una loro vita autonoma. Sono parassiti, come gli alieni di quel film di fantascienza, Il terrore della sesta luna, che ingroppano i terrestri e poi li muovono qua e là come marionette. Uno si dichiara fascista, oppure comunista, così, tanto per farsi capire, e poi gli tocca portare il peso delle leggi razziali, dei gulag stalinisti, del salto nel cerchio di fuoco, dell’invasione del Tibet e dei massacri di Pol Pot, dei lager nazisti, delle galere cubane, del discorso del bagnasciuga, della demenza senile di Lenin e persino delle corna del Duce. Tutte cose che con lui non c’entrano un tubo, di cui non porta la responsabilità, di cui non sa un accidente e che non gli toccherebbe difendere se non si fosse insensatamente consegnato, da pecorone, da «ariano de Roma» o da guevarista in guerra con i McDonald’s, alla tutela delle peggiori mitologie della modernità: un pentolone da cannibali in cui vorrebbe cuocere gli altri ma ci finisce cotto lui.

Tratto dal libro “Chiacchiere e distintivo” LFE

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