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Oneto: tutte le invenzioni dell’italia per mantenere integra l’unità

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padania-bandieradi GILBERTO ONETO*

Il meccanismo statale italiano si è dimostrato fin dall’inizio piuttosto scricchiolante: le differenze fra le diverse comunità trattenute al suo interno erano troppo forti per essere amalgamate con tranquillità. La cosiddetta “guerra del brigantaggio” aveva dimostrato quanto fosse difficile, costoso e doloroso imporre a genti così diverse di stare assieme. Oltre a ciò, la perequazione economica che fin da subito è stata imposta ha infastidito le sue vittime principali, le regioni più progredite. Lo Stato non ha perso un solo giorno per inasprire la pressione fiscale a comunità che erano abituate – con gli Stati preunitari – a regimi fiscali assai più blandi, a volte pressoché inesistenti.

Di fronte al pericolo che il crescente disagio sociale ed economico – miscelato con mai sopite pulsioni autonomiste e separatiste – potesse trasformarsi in pericolosi movimenti centrifughi, nel corso dei suoi 150 di esistenza, lo Stato italiano ha messo in campo tutta una serie di accorgimenti per evitare la propria disgregazione.

Inizialmente – durante il suo primo secolo di vita – la difesa dell’unità è stata affidata quasi esclusivamente alla propaganda e alla coercizione.

La prima ha avuto tutta una serie di diversi aspetti e applicazioni: l’invenzione di una storia comune e di una letteratura comune, l’educazione delle masse nelle scuole dell’obbligo e nelle caserme, la creazione di un repertorio patriottico e retorico in grado di convincere la gente dell’esistenza di una identità comune (si pensi al libro Cuore), la pura e semplice contraffazione delle vicende storiche e la cancellazione di antiche memorie condivise: tutto quello che non era riconducibile all’unità o a suoi prodromi è scomparso dai libri di scuola e si è scatenata una lotta ferocissima contro le lingue locali imponendo una lingua comune di fatto estranea al 90% dei cittadini,

Il secondo genere di provvedimenti – quelli coercitivi –  ha funzionato su repressioni interne e sull’invenzione di nemici esterni da combattere. Sergio Romano ha scritto che «Lo voglia o no l’Italia ha bisogno, per esistere,  di guerre e di sangue». I primi decenni sono stati un rosario di stati d’assedio (ben nove in 50 anni) e di violente repressioni con l’impiego dell’esercito, fin da subito organizzato più per questo genere di incombenze che per guerre “normali”: i soldati non erano reclutati e organizzati su base regionale ma venivano mescolati e inviati a servire lontano dei propri paesi. Questo impediva che reparti omogenei privilegiassero identità vere o che potessero fraternizzare con le popolazioni delle aree in cui erano stanziati. Ogni tentativo di rivolta è stato represso nel sangue con molta brutalità: la violenza dello Stato è cresciuta soprattutto quando ci sono stati anche segnali di autonomismo o separatismo.

Il peggio di sé lo Stato lo ha però dato nelle guerre (una decina in meno di un secolo), soprattutto in quelle scatenate  per alleggerire la pressione interna: le guerre coloniali innanzitutto ma, soprattutto, la Grande Guerra, dichiaratamente combattuta  per “fare gli italiani”, per unificare nelle trincee e nei cimiteri i diversi popoli della penisola. La maggiore infamia della storia italiana (per morti, costi, sofferenze, durata e conseguenze) è stata scientemente perpetrata per difendere il traballante castello dell’unità. Ha scritto D’Annunzio-Rapagnetta, principale e più delirante cantore e sostenitore di quella guerra, in un allucinato slancio di sincerità: «Sono sicuro che l’Italia vincerà, ma se anche non vincesse, avrà vinto; la guerra era necessaria perché la nazione non morisse».

Dopo la seconda guerra mondiale e le ulteriori prove di nessuna tenuta del tessuto nazionale (l’8 settembre è diventato il vero caposaldo simbolico dell’inconsistenza comunitaria), l’Italia – diventata repubblicana – si è imposta nella sua stessa Costituzione di rinunciare a perseguire la propria sopravvivenza  mediante lo strumento della guerra. Eccezioni sono state fatte con le cosiddette “operazioni di pace”, che sono la prova che la tentazione di “menare le mani” è sempre forte.

In compenso è stato nuovamente ripescato e  rimodernato lo strumento della “convinzione”  tramite il disinvolto utilizzo della radio, della televisione, del Festival di San Remo, della nazionale di calcio e di tutto il resto dell’ambaradan nazional-popolare reso possibile dalla cresciuta potenza di fuoco dei mezzi di comunicazione.

L’unità è però stata di fatto assicurata per un altro mezzo secolo principalmente dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti che ha cristallizzato tutte le frontiere. Solo la caduta del muro di Berlino ha riaperto i giochi e per questo lo Stato italiano ha dovuto inventarsi qualche altro trucco.

Due erano già stati impostati in precedenza: le forti migrazioni interne (col conseguente obiettivo di un meticciamento in grado di attenuare ogni diversità) e l’integrazione europea, la pretesa cioè di riuscire a dissolvere i problemi nazionali all’interno di un contenitore assai più ampio in grado di far dimenticare le differenze interne. «Perché parlare di divisioni, quando l’Europa si sta unificando?» e «Occorre essere coesi come italiani per affrontare bene attrezzati la sfida europea» sono fra i mantra più spesso salmodiati dai difensori dell’unità italiana ogni volta che si prospetta una riforma autonomista o anche solo blandamente federale.

In tempi ancora più recenti lo Stato si è inventato (o ha furbescamente utilizzato) l’invasione foresta. Di fronte a “diversi più diversi” – si sostiene – le nostre differenze interne si appannano: la numerosa presenza straniera da il colpo di grazia alle identità locali (già frastornate dall’immigrazione interna) e generano un incolore polpettone di “nuova italianità” senza storia, identità e prospettiva. Non è  un caso che, di fronte all’invasione ultronea, abbia ripreso vigore la retorica patriottica.

Insomma l’unità dello Stato è garantita da sempre più diffuse povertà e insicurezza, nonché da una identità indefinita, debole e pasticciata, ma fortemente sostenuta da un assordante concerto mediatico.  Non c’è niente di più facile che controllare una massa che non è più popolo: ancora più facile è quando non lo è mai stato.

*Proponiamo una serie di interventi di “richiamo” dei principi dell’indipendentismo padano, giusto per non dimenticare mai perché esistiamo come comunità politica e per scongiurare strane derive che attardano l’indipendentismo, lo inquinano e lo trasformano in strani paciocchi. Si tratta di una serie di dieci “ripassi” che vengono contestualmente trasmessi anche su Radio Padania Libera il venerdì alle ore 17:00 e che sono accessibili anche in sonoro su YouTube…

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1 COMMENT

  1. Sono per l’autodeterminazione dei popoli, senza Stato, poi penso ai catalani e ai curdi e ho qualche dubbio.
    E’ possibile spuntarla con Stati nazionalisti con tanto di esercito che fanno della prepotenza e della violenza il loro punto di forza?
    :-/

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