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La sanità pubblica non funziona? Dicono che è colpa del mercato

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di MATTEO CORSINI

Se c’è qualcosa che ha caratterizzato quasi tutte le forze politiche dell’Italia repubblicana è l’avversione al libero mercato. La Costituzione neppure lo menziona e subordina l’iniziativa economica privata all’interesse pubblico, che poi è quello che stabilisce chi governa pro tempore. E siccome l’avversione al mercato era tipica anche del dirigismo fascista, il codice civile del 1942 è rimasto invariato nelle sue parti principali fino a oggi. Evidentemente anche i più ferventi antifascisti hanno ritenuto che in economia andasse bene il dirigismo dei tempi del ventennio.

L’Italia repubblicana è sempre stata un sistema a economia mista, con il mix pesantemente sbilanciato verso lo statalismo. Ciò nonostante, quando qualcosa non funziona si sente dire che è colpa del mercato, addirittura di un mercato senza regole, detto “far west”. L’ennesima riprova l’ho avuta leggendo la recensione di Luigino Bruni al libro “Una sanità uguale per tutti”, già ministro della Sanità del governo Prodi e a lungo parlamentare della parte sinistra della Democrazia Cristiana, poi confluita nel PD. Scrive Bruni:

  • “La democrazia del XX secolo ha cercato con tutte le sue forze di superare il feudalesimo, le sue caste e il sangue blu. Il libero mercato, che nei suoi fondatori avrebbe dovuto portare uguaglianza e libertà, ha di fatto ricreato un neo-feudalesimo che è stato accolto con entusiasmo proprio dalla sinistra e da buona parte del mondo cattolico, le forze che avevano scritto 80 anni fa la Costituzione. L’introduzione del Servizio Sanitario nazionale nel 1978 (Legge 833) è stata frutto dal dolore collettivo generato dal fascismo e dalla guerra. Dietro l’universalismo di quella riforma c’erano gli ideali della Costituzione e di quella stagione di “fraternità civile” maturata grazie ad un’ampia convergenza tra il mondo cattolico e quello socialista e comunista. Un umanesimo personalista e solidale che metteva al primo posto l’uguaglianza nell’accesso alla sanità, non il profitto delle cliniche né gli stipendi dei medici, che comunque venivano riconosciuti. Chiaramente quella visione profetica tipica di quella classe dirigente – con il ruolo decisivo di Tina Anselmi – si scontrò con l’ondata di neoliberismo introdotta dai venti inglesi (Thatcher) e Usa (Reagan). Non a caso la riforma del ministro De Lorenzo del governo Amato è del 1992, quando con il crollo del sistema sovietico quei venti liberisti aumentarono molto la loro potenza, e non smisero più di soffiare forte”.

Parrebbe che l’Italia sia stata travolta dal un mix di Thatcherismo e Reaganismo, ma la verità è che a inizio anni Novanta era sull’orlo della bancarotta e dovette, con riluttanza di gran parte delle forze politiche, porre qualche freno alle degenerazioni stataliste dei decenni precedenti, che furono a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta il vero risultato della “stagione di “fraternità civile” “maturata grazie ad un’ampia convergenza tra il mondo cattolico e quello socialista e comunista”.

Che le cose siano poi state fatte male, anche a livello di privatizzazioni, è un altro paio di maniche. D’altra parte non si trattò di scelte fatte per convinzione politica, ma per necessità. Secondo Bruni, le “riforme di Tina Anselmi e poi di Rosy Bindi erano troppo costituzionali per intonarsi con il pensiero dominante del capitalismo liberista e del business”Ma dominante dove? A sud delle Alpi, soprattutto nei palazzi di Parlamento e Governo, non direi proprio. Ma Bruni insiste:

  • “Il progetto Anselmi-Bindi, in una Italia sempre più colonizzata dal dogma del business e dal suo principale corollario delle privatizzazioni, non poteva che essere destinata ad un lento ma inesorabile triste destino”.

Ripeto: non ci fu nessuna conversione liberista, e “il lento ma inesorabile triste destino della sanità pubblica” fu parte del declino, per raggiunta sostanziale bancarotta, del modello statalista e spendaccione della Prima repubblica. E aggiunge Bruni:

  • “Oggi, nonostante le intenzioni della Bindi, il paziente (sempre più cliente) non coglie la differenza etica tra pagare 200 euro nell’ospedale pubblico o nello studio privato del medico, perché è lo stesso servizio pubblico che ha generato nel suo grembo quella logica mercantile che la riforma voleva combattere. E la diseguaglianza sociale cresce, nonostante l’articolo 3, che oggi dovrebbe portarci ad inserire queste distorsioni della sanità pubblica tra quegli “ostacoli” che la Repubblica dovrebbe rimuovere perché «limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»”.

Credo che ogni individuo, soprattutto quando si tratta della propria salute, non colga “la differenza etica tra pagare 200 euro nell’ospedale pubblico o nello studio privato del medico”. Però coglie il fatto, quanto meno per quanto mi riguarda, che paga una gra quantità di tasse per finanziare anche il servizio sanitario pubblico, salvo poi dover pagare per ottenere una prestazione e dover spesso ricorrere al privato. Ma è ragionevole e realistico affermare che ciò sia l’effetto di un eccesso di mercato? Suvvia.

“Dovremmo ormai ammetterlo se avessimo una sufficiente onestà. Anche l’Italia è profondamente cambiata, e i valori della Costituzione, certamente quelli economico-sociali, sono tramontati insieme agli ultimi politici del dopoguerra”, scrive ancora Bruni con malinconia. Quella malinconia che, credo, gli faccia perdere di vista la realtà di come si è arrivati alla situazione odierna. Scrive infatti ancora:

  • “Le scelte in materia economica e sociale hanno negato nei fatti i principi costituzionali. L’impianto economico-sociale della Costituzione non poneva il mercato al centro. Gli riconosceva un suo ruolo ma di seconda battuta, forse di terza o di quarta. Non a caso la parola mercato non compare nella Costituzione, come non sono presenti le parole imprenditore, impresa, banca. E le parole ‘economia’ o ‘economici’ sono sempre inserite in contesti dove i rapporti economici vengono orientati e concepiti in rapporto all’uguaglianza (art. 3), alla solidarietà (art. 2), soprattutto al lavoro (art. 1,4)”.

Tranquillizzerei Bruni: il mercato è ancora in terza o quarta battuta. La questione è che il Paese invecchia, e la domanda di prestazioni sanitarie non può che aumentare. Ma non aumenta il numero di quelli che pagano il conto. Non siamo al livello di schema Ponzi tipico del sistema pensionistico a ripartizione, ma anche in questo caso ci sono elementi di questo tipo. Può non piacere, ma è la realtà.

Per tornare al passato, aumentando quindi la spesa sanitaria, ci sono solo due possibilità (anche mixate): ridurre altre spese o aumentare le tasse. Quale delle due potrebbe prevalere in un Paese in cui la spesa è sempre solo aumentata di anno in anno?

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