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Italia, culla del diritto negato. Storie di continui fallimenti

Da leggere

di JAMES CONDOR

Con questa importante ed approfondita inchiesta, prende il via la nuova rubrica su la  “INGIUSTIZIA ITALIANA”, che metterà a nudo le disfunzioni, l’inefficienza e l’ingiustizia che caratterizzano lo Stato italiano, i suoi apparati, la sua burocrazia. Un sistema di ingiustizie utile solo a vessare i cittadini.

LA PALUDE DEI FALLIMENTI

Un Paese dove i processi non finiscono mai. E che in compenso sono fatti malissimo. Un Paese dove la proprietà privata non conta niente, dove lo Stato sottrae illecitamente un minore alle famiglie senza farsi troppi scrupoli, dove la vita delle famiglie è presa a calci. E dove nessuno, per questi abusi, paga mai.

Non si tratta di critiche feroci o di sfumature politiche, che anzi attaccano o difendono la giustizia a seconda dello schieramento, ma della fotografia scattata all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo. Strasburgo ha infatti pubblicato i numeri sulle sanzioni in materia di giustizia inflitte ai Paesi della Convenzione dal 1959 al 2010 (VEDI TABLEU DE VIOLATIONS) dal tribunale per i diritti umani, mostrando al mondo cosa sia davvero quella che ancora alcuni fingono di considerare la culla del diritto pur di non cambiare una macchina che miete vittime a ripetizione: la nostra giustizia. Che miete vittime, ma che costa pure tantissimo sotto il profilo economico: in particolare, ed è paradossale, costa eccezionalmente proprio grazie all’artifizio che lo Stato aveva inventato per rimediare ai propri errori rispetto alla Convenzione, la legge Pinto, che ha fatto molto più che decuplicare i costi, come ha rivelato la RELAZIONE 2010 PAG-63-65,  senza nemmeno riuscire a individuare le cause del “male”. E aggiungendone dell’altro: ulteriori cause a Strasburgo e ulteriori indennizzi.

Giusto per farsi un’idea dei dati di Strasburgo, la Spagna in 41 anni ha subito al tribunale per i diritti dell’uomo 91 sentenze, la Germania 193, il Regno Unito 443, la Grecia 613. L’Italia invece ne ha nientemeno che 2121: una valanga, addirittura il doppio della Russia, superata solo dalla Turchia. Ciò che più conta è che in 1617 casi è stata riconosciuta almeno una violazione della Convenzione per i diritti umani e che solo in 51 casi non sono state riscontrate violazioni. La gran parte delle decisioni riguarda, com’è noto, la lentezza dei processi, specie in materia civile, con 1139 condanne. Sotto di noi, l’abisso, con la Turchia al secondo posto con 440 condanne, quasi un terzo, e sotto un nuovo baratro. Meno noto il fatto che 238 nostre violazioni riguardino l’equo processo, sempre all’articolo 6 della Convenzione, ma diretto alle violazioni del diritto ad una giusta difesa. Ossia: è vero che ci mettiamo tanto a fare un processo, però, alla fine, possiamo dire che è stato pure ingiusto.

Quanto al diritto alla vita privata e famigliare, in cui l’Italia vanta plurime condanne per sottrazione illecita di minori alle famiglie da parte dello Stato, non abbiamo eguali: 131 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 15 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 297 sentenze sulla protezione della proprietà privata. Tra i Paesi dell’Ue sotto di noi c’è l’abisso, dato che al secondo posto c’è la Grecia con 62 violazioni, quasi un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.

L’aspetto più importante è che 2121 sentenze per violazione dei diritti umani nei processi non significano 2121 casi, perché ogni sentenza può radunarne a gruppi, perfino di centinaia. È questo che può dare l’idea di un fenomeno mostruoso, una metastasi del sistema che continua a divorarlo.

CLICCA L’IMMAGINE SOPRA E LEGGI ALCUNI DEI DATI CHE CARATTERIZZANO LA MAGISTRATURA ITALIANA

 

NUOVI RECORD NEL 2011

Dal 31 dicembre 2010 al 30 novembre 2011 la situazione è infatti ulteriormente peggiorata: l’Italia ha continuato imperterrita a rosicchiare percentuali sulla torta dei ricorsi dei cittadini dei Paesi membri, passando dai 10200 ricorsi della fine del 2010, ai 13400 ricorsi di fine novembre, passando così dal 7,5% all’8,8% della torta (VEDI TABELLE Pendenze al 31-12-2010 e  Pendenze al 30-11-2011). Da notare l’assenza dei grandi Paesi occidentali nella torta – se escludiamo un piccolissimo 2,4% del Regno Unito -, tutti sotto la voce “altri 37 Stati”. E che superiamo Romania, Ucraina, doppiamo Polonia e Serbia, quadruplichiamo o quasi la Bulgaria.

 

LA LEGGE FALLIMENTARE. L’INFAMIA DEL REGIO DECRETO

Ci sono processi e processi. Per comprendere come l’Italia non rispetti affatto le Convenzioni che firma, c’è un processo italiano in particolare che ha comportato negli anni, e in parte ancora comporta, una sfilza infinita, in una volta sola, di una lunga serie di violazioni agli articoli della Convenzione di Strasburgo, e ai suoi successivi protocolli, sui diritti dell’uomo: si va dalla libera circolazione al diritto alla corrispondenza, dal diritto di voto al diritto ai propri beni, dall’accesso al processo al diritto alla vita privata e famigliare.

A comportare tutte queste violazioni è il nostro processo sui fallimenti, uno dei più grandi scandali italiani passati sotto silenzio per decenni. E di cui si fa ancora fatica a parlare. Eppure si tratta quasi sempre di un labirinto dal quale, chi ci finisce dentro, non esce più. Ci sono diverse ragioni per le quali si può incappare in un fallimento, specie in uno Stato che ha la pressione fiscale più alta d’Europa e pretende taluni fondamentali pagamenti, come l’iva, anche prima che uno l’abbia incassata. E che chiede tasse in anticipo sulla presunzione di un volume d’affari, come se gli imprenditori avessero la sfera di cristallo. Di certo in questa maglia finisce spesso brava gente, anche per poche migliaia di euro, gente con una faccia e una casa. E quasi mai, invece, chi fa dell’attività societaria un’arma per delinquere, troppo accorto per non sfruttare prestanome o, per usare una frase in gergo, le cosiddette teste di legno. Troppo astuto per avere intestato qualcosa.

Ci vorrebbe dunque una legislazione molto accorta, in grado di stabilire con equità caso per caso.

Ma in una Repubblica fondata sul lavoro e che fa dunque dell’impresa del lavoro la sua base, la legge fallimentare è regolata unicamente da una legge del Regno: il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942. Una legge rimasta sostanzialmente immutata per 60 anni.

CLICCA L’IMMAGINE QUI SOPRA PER APPROFONDIRE IL CASO DEL SIGNOR BERTOLINI, FINITO A STRASBURGO

 

LA SPIRALE DEL FALLIMENTO

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Gianna Sammicheli vive a La Spezia. Si è occupata di cause per i diritti umani in Germania, Spagna e in Inghilterra e da qualche tempo si sta confrontando con il sistema giuridico italiano. «La legge 80 /2005 e il decreto legislativo 5/2006 hanno dovuto recepire molte delle indicazioni date dalla Corte Europea, per modificare la legge, dopo diverse condanne subite dall’Italia a Strasburgo.

Le nuove norme tuttavia hanno finito per applicarsi solo alle procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore della legge. Il fatto è che per tutte le procedure che erano in corso in quel momento le violazioni ci sono già state e quindi restano lamentabili nei sei mesi dalla chiusura dal fallimento, nonostante l’abrogazione delle norme».

Quali sono le leggi del nostro codice che per 60 anni hanno violato la Convenzione di Strasburgo? «Sono stati abrogati in particolare gli articoli 48, 49, 50 sulla corrispondenza, la libertà di circolazione, l’iscrizione nel registro dei falliti, dalla quale partivano automaticamente le “incapacità” previste dal codice civile e dalle leggi speciali. Molte erano “incapacità” relative ai diritti civili o politici. Come la perdita del diritto di voto per cinque anni, l’impossibilità di iscrizione agli albi per esempio o di amministrare società. In realtà, già aprire un conto corrente per molti è stato un problema. La corrispondenza del fallito, tutta, andava direttamente al curatore; il fallito non poteva muoversi liberamente e doveva restare sempre a disposizione del curatore.

Queste limitazioni persistevano fino alla sentenza di riabilitazione, che poteva essere chiesta dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il che, spesso, avveniva dopo vent’anni dall’inizio del fallimento». Una vita. Vent’anni senza disporre dei propri beni, senza poter verificare che vengano venduti e non svenduti, senza poter avere un fido o accendere un mutuo, spesso senza nemmeno avere un conto corrente. Vent’anni di segnalazioni alle centrali rischi, un marchio d’infamia che ha ottenuto un rimedio. Forse. «La Corte Costituzionale,- prosegue Sammicheli – con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 50 e 142 per il testo anteriore all’entrata in vigore della riforma, nella parte in cui si stabiliva  che le “incapacità personali” derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurassero oltre la chiusura della procedura concorsuale. Questo proprio per chiarire che se anche la riforma non si applica alle procedure vecchie, le “incapacità” di questi vecchi fallimenti cessano con la chiusura. Però…».

Però?

 

IL RIMEDIO É PEGGIO DELLA CURA

«Il problema è che la riforma ha eliminato il Registro dei Falliti e le norme sulla riabilitazione, ma all’eliminazione non è seguita alcuna modifica di legge che permetta di eliminare di fatto tutte le “incapacità” in modo automatico alla chiusura del fallimento». Si spieghi.

«In sostanza, abrogando l’istituto della riabilitazione, paradossalmente non si possono più eliminare tutte le conseguenze che derivavano dalla riabilitazione. Con questa si aveva anche l’estinzione degli effetti dell’eventuale condanna penale che talvolta si accompagna alla dichiarazione di fallimento. Il fallito quindi, oggi, chiuso il fallimento, non può semplicemente chiedere ad esempio l’iscrizione al registro delle imprese per l’inizio di nuova attività commerciale, perché non ha alcun documento che attesti il riacquisto delle capacità, né può ottenere direttamente il certificato del casellario che non menzioni i provvedimenti giudiziari relativi al fallimento. L’articolo 24 T.U. 313/2002 infatti lo rende formalmente possibile solo se c’è stata una sentenza di riabilitazione. Di fatto si lascia che i falliti si arrangino da soli, specie se il fallimento è già chiuso».

E cioè questo significa che chi ha visto chiuso il proprio fallimento dopo vent’anni deve fare una nuova causa davanti ad un giudice perché una nuova sentenza ne cancelli il nome dal casellario penale.

E sembra in effetti dire lo stesso anche la circolare del Ministero della Giustizia del 22 settembre 2008. QUI IL LINK DELLA CIRCOLARE.

E che cosa accade in questi casi? Accade che il giudice interpreta. E non è affatto detto che disponga la cancellazione. Una situazione kafkiana.

CLICCA L’IMMAGINE QUI SOPRA PER APPROFONDIRE IL CASO DEL SIGNOR  DANZANI  (Qui la SENTENZA del CASO DANZANI)

 

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI? IL CONTRIBUENTE PAGA

Sicchè anche chi è fallito vent’anni fa e il suo fallimento è stato chiuso da tempo immemore, rischia ancora di trovarsi tracce che gli impediscano una nuova vita, anche solo l’accesso ad una banca. Di più. Nonostante le modifiche, prosegue Sammicheli, «il fallito oggi è tuttora privato dell’amministrazione e della disponibilità dei propri beni a partire dalla dichiarazione di fallimento, beni che vengono gestiti esclusivamente dagli organi preposti. È poi il curatore a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di diritto patrimoniale. Inoltre, il fallito non ha né ha mai avuto libero accesso al proprio fascicolo, il che gli impedisce di verificare l’operato degli organi fallimentari. Se è vero che devono essere i creditori ad interessarsene, è anche vero che non se questi lo fanno e il curatore agisce ai danni del fallimento stesso, come è anche successo, difficilmente il fallito potrà saperlo, pur subendone le conseguenze».

Nella zona grigia dei fallimenti emergono così storie come quella di un giudice del tribunale fallimentare di Firenze, Sebastiano Puliga, condannato in primo grado, lo scorso novembre, a quindici anni, tre dei quali condonati. Accusato di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta, è stato condannato insieme ad una trentina di persone, tra avvocati, commercialisti, architetti e ingegneri, tutti con pene dai 3 anni e 2 mesi ai 9 anni e 9 mesi.

Cuore della vicenda un presunto comitato d’affari per pilotare l’affidamento di perizie e curatele. Il fatto è che le indagini su di lui sono cominciate nel 2002 e la prima sentenza è giunta nove anni più tardi. E riguardava vicende ovviamente precedenti, anni ’90. Significa che, se davvero Puliga è colpevole, ci sono falliti che aspettano giustizia da una vita. «Qualsiasi sia l’esito processuale- dice ancora Sammicheli – è evidente che vicende come queste forse risentono proprio di una eccessiva fiducia accordata originariamente dalla legge agli organi fallimentari. Prima della riforma non c’era alcuna espressa incompatibilità tra i magistrati fallimentari e quelli, ad esempio, incaricati dell’esecuzione sui beni dei falliti. In pratica il giudice del fallimento poteva anche essere giudice delle cause che autorizzava ed in cui stava in giudizio il curatore. La riforma ha cercato quindi di diminuire i poteri del giudice, a favore del comitato dei creditori, aumentando anche i requisiti per essere nominati curatori».

Situazione risolta? A sentire il legale no.

«Il fallito resta nella situazione precedente. Per ottenere i documenti, in modo da controllare la gestione dei beni, al fallito occorre infatti fare istanza al giudice, che può anche non accoglierla o accoglierla solo in parte. Per esempio le relazioni del curatore anche ora possono non essere date e gli altri documenti dati attraverso il curatore. Il fallito cioè può tuttora non vedere mai il proprio fascicolo e spesso non ha idea di quello che viene fatto».

CLICCA L’IMMAGINE QUI SOPRA PER LEGGERE DEL MAXIRISARCIMENTO DI 25 MILIONI DI EURO RICHIESTO ALL’ITALIA

 

SUICIDARSI PER NON FALLIRE

E se nessuno vede, e nessuno può controllare, ecco la zona grigia. Dove tutto può succedere, in silenzio. E per anni, tanti anni. Anni in cui il fallito non sa se una sua casa, ad esempio, sia stata venduta a prezzi tali da coprire il debito. Non sa nulla. Solo che pagherà a vita. Con mezzi, beni. E infamia.

Di più. «Non solo un fallimento medio anteriore alla riforma è durato almeno dieci anni – conclude il legale -, molti dei quali passati ad aspettare che i beni immobili del fallimento venissero venduti o svenduti, con tutte le conseguenze sulle sue “incapacità”. Ma il fallito, ai sensi dell’art. 120 LF , una volta chiuso il fallimento, ritorna esattamente nella posizione di partenza, ovvero con tutti i debiti non pagati sulle spalle ed è, anche solo teoricamente, di nuovo aggredibile».

Punto e a capo. E in una macchina come questa, ecco perché tanti falliti si suicidano.

Ed ecco perché in tanti si tolgono la vita piuttosto che fallire.

 

 

 

 

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9 COMMENTS

  1. Lei non pensa che gli italiani ancoscono il contenuto della L. 40,(nemmeno deputati senatori!), ritiene perf2 che siano contrari alla stessa! Se invece fossero andati a votare per quel referendum, cosa avrebbe pensato, che gli italiani erano favorevoli a qeella legge, o che non avevano trovato di meglio da fare, magari perche8 non era bel tempo quel giorno?

  2. “Un paese dove i processi non finiscono mai”.

    Ma quando occorre condannare al”ergastolo due innocenti i tempi sono brevissimi e il tam tam mediatico è allineato e coperto sulla tesi colpevolista, confezionata a bella posta su misura per i capri espiatori.

    Mi riferisco, ovviamente, a Rosa Bazzi e Olindo Romano ai quali va il mio pensiero e la mia solidarietà, per quel che vale.

    Los von Rom!

    • Il Suo discorso epuspprone che gli italiani conoscano il contenuto della legge sulla fecondazione assistita (oltre a conoscere gli argomenti!) non pensere0 davvero che sia cosec! E poi pif9 che immaginare quanti sarebbero favorevoli e quanti contrari, come in un sondaggio, si tratterebbe di capire su cosa sarebbero favorevoli e su cosa, contrari! Il discorso, tuttavia, era un altro: che se la la gente non ci va a votare nei referendum vuole dire che, o l’argomento non e8 da Sec o da No tout court, o che a prescindere dal tema, non ritiene di dover andare a rispondere se e8 pro o contro quel particolare quesito, questo e8 il discorso, diverso da quello che pone, invece Lei. In ogno caso tra due mesi, a giugno, potremmo avere una conferma o una smentita a tale proposito..! Saluti

  3. Io ho visto con i miei occhi impacchettare tutti i libri contabili, fascicoli, fatture, bilanci per essere caricati da un vettore che li avrebbe portati in un non meglio identificato deposito di un privato a circa 500 chilometri dal curatore fallimentare con tanto di preventivo e contratto per l’affitto, perchè il tribunale di competenza non aveva locali idonei. Le domande sono: quando il curatore fallimentare visionerà quei documenti? Risposta; Mai. Il denaro per l’affitto del deposito dovrà essere versato al privato che gliel’ha concesso, con quali soldi? Risposta, con quanto incasserà il fallimento decurtandolo da eventuali creditori. Da quello che ho potuto vedere io da molto vicino è che i fallimenti sono un bussines per tutto quello che circola intorno ai tribunali e per il fallito e i suoi creditori è la sconfitta a vita.

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