di LUIGI MARCO BASSANI
La polemica sull’aprire o meno una linea di credito ideologico nei confronti di Javier Milei, il primo politico al potere in un grande paese che si richiama costantemente ai principi libertari e tenta anche di applicarli, divampa e divide il mondo libertario.
Mi trovo pienamente d’accordo con Leonardo Facco, che ha appena pubblicato una difesa a spada tratta di Milei. A suo avviso, la critica rivolta al Presidente argentino da una certa frangia del libertarismo è viziata dalla fallacia del Nirvana, perché giudica l’azione politica concreta confrontandola con un ideale irrealizzabile.
Condannare Milei per il semplice fatto di esercitare il potere statale al fine di smantellarlo significa abbracciare un impossibilismo sterile. Le accuse di tradimento verso Mises e la Scuola Austriaca ignorano poi che la politica economica di Milei è, di fatto, la più coerentemente “austriaca” mai comparsa sul pianeta. Il pieno allineamento con Occidente e Israele da parte di Milei è solo realismo: un paese in crisi non può isolarsi in nome di un purismo teorico slegato dalla realtà internazionale. Infine, concordo con Leonardo anche sul fatto che la vera forza di Milei sta proprio nel trattare il libertarismo come una prassi. Mentre i suoi critici inseguono la purezza dottrinaria, Milei è il primo capo di Stato che prova a utilizzare il potere per ridurre radicalmente le minacce statali alla libertà degli individui.
La questione mi pare comunque più generale e potrebbe essere meglio compresa alla luce di alcune considerazioni storico-dottrinarie.
In una lettera a Wilhelm Bracke del 5 maggio 1875 – la nota Critica del Programma di Gotha, pubblicata poi da Engels nel 1891 – Marx sostiene che qualunque passo avanti di un movimento reale è più importante di una dozzina di programmi teorici (“Jeder Schritt wirklicher Bewegung ist wichtiger als ein Dutzend Programme”). Trenta anni prima, nell’Ideologia Tedesca, aveva definito il comunismo non come uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà adeguarsi, ma come quel “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. Questa idea di volersi porre nella storia e per la storia è stata la vera forza del comunismo: una dottrina che non si limitava a descrivere il mondo, ma ambiva a trasformarlo attraverso partiti, sindacati, organizzazioni di massa.
Se materialismo storico e teoria del valore-lavoro sono stati trastulli per intellettuali annoiati e costruzioni considerate fin da subito insostenibili, i partiti comunisti e i sindacati si appassionavano a battaglie reali qui e ora: condizioni di lavoro, salari, welfare, anticolonialismo. La forza del comunismo storico è stata esattamente questa saldatura fra teoria e movimento, fra idea e organizzazione. È anche ciò che consente al marxismo di sopravvivere a tutti i suoi fallimenti epocali.
I libertari da almeno sessant’anni hanno imboccato la via opposta. Esiste senza dubbio il Marx dei libertari, ossia Murray N. Rothbard, morto trent’anni fa, che ha lasciato una piccola schiera di eredi intellettuali, spesso però meri ripetitori delle idee del padre nobile. Ma la dottrina libertaria è stata sempre più utilizzata come pungolo teorico contro l’esistente, abbandonando qualunque speranza di agire realmente nel mondo.
L’atteggiamento libertario ricorda quello dei sacerdoti in un mondo totalmente scristianizzato: si rielabora e si discute la Parola sperando che un giorno il mondo ritorni a credere, ma senza quasi più tentare di incidere sulle strutture concrete della società. Il
paradosso è che Rothbard, nell’ultimo capitolo di “For a New Liberty“, appare ossessionato precisamente dal problema della strategia.
Da un lato colpisce gli “opportunisti” – ossia coloro che riducono il libertarismo a piccole riforme marginali – e polemizza con chi si accontenta di timide misure fiscali. Scrive che “chi si limita a chiedere una riduzione delle tasse del due per cento contribuisce a seppellire l’obiettivo ultimo dell’abolizione totale della tassazione”. Ed effettivamente vi è il rischio di che “concentrandosi sui mezzi immediati” si dimentichi lo scopo finale. E poi, si chiedeva Rothbard, chi mai “sarebbe disposto ad andare sulle barricate per una riduzione delle tasse del due per cento”?
Qui Rothbard coglie perfettamente il punto che per Marx era cruciale: un movimento politico non vive di micro-aggiustamenti amministrativi, ma di una tensione ideale che mobilita, di un orizzonte capace di portare le persone sulle barricate. Su questo sfondo, Rothbard formula una delle regole più nette del capitolo “il libertario non deve mai sostenere né preferire un approccio graduale, invece che immediato e rapido, al raggiungimento del proprio obiettivo”. La gradualità non è esclusa come risultato di compromessi di fatto, ma viene rifiutata come atteggiamento di principio: se si assume il gradualismo come norma strategica, si finisce per relativizzare gli scopi ultimi, per mostrare al mondo che non si crede nella priorità assoluta della libertà umana.
Per difendersi dall’accusa di utopismo, Rothbard distingue fra utopia irrealizzabile e progetto radicale, ma compatibile con la natura umana. Definisce così, in modo molto secco: “Un sistema utopico è quello che non potrebbe funzionare nemmeno se tutti fossero persuasi a cercare di metterlo in pratica”.
Il comunismo, nella lettura rothbardiana, è “utopico” in senso forte; il libertarismo no, perché non richiede un “uomo nuovo”, ma presuppone individui mossi da interessi ordinari, desiderio di conservare e godere i propri beni, eterogeneità di preferenze.
Il bersaglio qui è duplice: da un lato il socialismo realizzato, dall’altro il conservatore minimal-statista che crede in uno Stato che possa essere limitato dalla legge e dall’opinione.
In un altro passaggio, nel quadro di “For a New Liberty“, Rothbard liquida l’idea di governo minimo come esperimento storicamente fallito: “L’idea di uno Stato costituzionale rigidamente limitato fu un nobile esperimento che fallì, persino nelle circostanze più favorevoli e propizie”. Se perfino il tentativo americano è degenerato in espansione incontrollata del potere pubblico, allora il ritorno al “vero liberalismo costituzionale” non può essere considerato una soluzione realistica, ma una forma di utopia conservatrice.
In questo quadro, il giudizio di Rothbard sui libertari che si chiudono nel culto della coerenza teorica è implicito ma durissimo: il libertario che si limita a denunciare lo Stato e a predicare il principio, senza elaborare una strategia per passare dalla teoria alla prassi, è il corrispettivo dell’«opportunista» o del «settario» marxista. Ha un sistema coerente, ma non partecipa mai a un movimento reale. Rothbard insiste invece che l’adesione al principio deve tradursi nella ricerca dei mezzi storicamente più rapidi ed efficaci per aumentare qui e ora gli spazi di libertà. Ed è esattamente qui che emerge la contraddizione dei libertari contemporanei.
Mentre Marx definiva il comunismo come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”, molti libertari si sono rassegnati a un libertarismo puramente contemplativo: amano osservare la perfezione interna dei loro principi politici e sociali, ma rifuggono dall’aspro terreno delle mediazioni strategiche, delle alleanze imperfette, delle campagne parziali. Mentre Rothbard chiedeva ai libertari di smettere di accontentarsi di una riduzione delle tasse del 2%, e di affrontare il problema del passaggio dalla denuncia teorica alla trasformazione concreta, molti suoi eredi hanno scelto la posizione del sacerdote in un mondo scristianizzato: custodire il Verbo, ma rinunciare quasi completamente a cambiare il mondo. In fondo, ogni politico al mondo è uno statalista, ogni movimento reale ci spinge verso il collettivismo e conviene solo ribadire in ogni piattaforma il proprio disprezzo della politica.
“Specchio, specchio delle mie brame, chi è il più puro libertario del reame?”, questo è il gioco più diffuso in un movimento che vorrebbe rinunciare per statuto a tentare di cambiare lo stato di cose esistenti.


Non bisogna sottovalutare la complessità insita nell’azione e la differenza fondamentale che c’è tra la teoria e la pratica; d’altronde se non si passasse dalle prove reali, nessuna teoria potrebbe mai venire verificata e forse è proprio in questo senso di difesa della perfezione teorica che vanno lette le critiche a Milei, la paura è un sentimento umano.
Ardlu sì l’aut… Vergognati! Se ti vedesse tuo figlio… (cit.)
Di cosa mi dovrei vergognare?
La soluzione è solo individuale e risiede nell’esserae anarca, agorista, le strategie per lo sstato minimo collettivo le lasciamo ai liberali classici.
Secondo il tuo punto di vista, però, dimostrando peraltro che dichiarandoti Anarca e non vivendo da eremita, o da anacoreta nel deserto, sei una contraddizione vivente.
La famiglia nel bosco è molto più coerente di te. Inoltre, la tua fatale presunzione di essere, come un altro manipolo di idiHoppe, il depositario, e l’incarnazione, del pensiero libertario beh… è quanto meno assurda. Secondo me stai sbagliando qualcosa… ma vedremo in futuro.