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La natura classista della costituzione italiana

Da leggere

di GUGLIELMO PIOMBINI

In questo libro davvero meritevole di lettura, Costituzione, Stato e crisi. Eresie di libertà per un paese di sudditi,lo studioso padovano Federico Cartelli disseziona con cura la nostra carta costituzionale, rilevando tutti i suoi caratteri illiberali, statalisti, accentratori. Le sue critiche trovano piena conferma nell’inarrestabile processo di espansione dello Stato avvenuto dal dopoguerra a oggi sotto l’egida di una Costituzione che non ha mai frenatol’aumento della tassazione, della spesa pubblica, del debito pubblico, della burocrazia, dell’alluvione legislativa.

A cosa dovrebbe servire, invece, una Costituzione? A proteggere coloro che sono senza potere da coloro che esercitano il potere pubblico. Storicamente i ceti operosidella società (il “Terzo Stato”) hanno visto nelle costituzioni uno strumento per difendersi dalla spogliazione dei frutti del proprio lavoro da parte delle classi politico-burocratiche parassitarie. Infatti, come testimonia la storia dei regimi socialisti, quando l’esercizio del potere politico non conosce limiti legali, le nomenklature che controllano le leve fiscali e redistributive dello Stato possono procurarsi ogni genere di privilegio sfruttando in maniera illimitata i produttori di ricchezza.

L’esistenza di uno Stato, democratico o meno che sia, divide sempre la società in due grandi classi: quella dei pagatori di tasse che si guadagnano da vivere producendo beni e servizi richiesti dal mercato, e quella dei consumatori di tasse mantenuti dalle imposte. Nella regolazione dei rapporti fra questi due ceti sociali, come ha operato fino a oggi la Costituzione italiana? Se escludiamo i primi decenni del “miracolo economico”, quando gli apparati fiscali e burocratici non avevano ancora avuto il tempo di ampliarsi e organizzarsi, la Costituzione ha di fatto ha sempre funzionato a vantaggio della classe che vive di trasferimenti statali, e a svantaggio della classe che opera nel settore privato dell’economia.

Questa tendenza ha avuto un’accelerazione negli ultimi decenni, durante i quali si è avuto un colossale travaso di ricchezze dal settore privato al settore statale. Nel 1996 le entrate dello Stato italiano ammontavano a più di 450 miliardi di euro, nel 2003 hanno raggiunto i 600 miliardi, e nel 2013 i 760 miliardi. L’aumento della spesa è stato ancora più rapido di quello delle entrate. La spesa pubblica, che nel 1996 superava di poco i 500 miliardi di euro, ha raggiunto i 600 miliardi nel2001, ha quasi toccato i 700 miliardi nel 2005, per poi superare gli 800 miliardi nel 2013.

Questi numeri rivelano che nell’arco di una ventina d’anni, caratterizzati da una bassissima crescita economica, i privati sono stati costretti a suon di campagne intimidatorie e denigratorie orchestrate dall’alto (“evasori”, “bottegai”, “parassiti”) a versare nelle mani dei membri dell’apparato statale 300 miliardi aggiuntivi all’anno, oltre ai 500 miliardi che già pagavano! Se escludiamo le esperienze storiche delle rivoluzioni comuniste, probabilmente non si è mai verificata un’espropriazione di ricchezze private così rapida e imponente. Grazie dunque alla “Costituzione più bella del mondo” il peso fiscale complessivo sulle imprese ha raggiunto, nel corso degli anni, il 70 per cento degli utili: un livello di depredazione che non ha eguali al mondo.

Questo processo è stato favorito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la cui linea interpretativa sembra infatti congegnata apposta per favorire, sempre e comunque, gli interessi di coloro di coloro che vivono di spesa pubblica. Le recenti dichiarazioni di incostituzionalità del mancato adeguamento delle pensioni più elevate o degli stipendi dei dipendenti pubblici, ad esempio, seguono una linea che favorisce, per partito preso, le categorie dei consumatori di tasse a danno delle categorie dei pagatori di tasse.

Per la Corte i benefici che il potere politico attribuisce, anche una tantum, ai consumatori di tasse rimangono tali per sempre. Poiché è impossibile trovare nel testo della Costituzione questo principio, la Corte ha dovuto creare una dottrina su misura, quella dei “diritti acquisiti”, che sancisce ufficialmente una pesante discriminazione a danno dei produttori privati di reddito. La Corte infatti non riconosce un analogo diritto in capo ai pagatori di tasse privati, perché se il governo riduce un’imposta o aumenta una detrazione fiscale, questa non diventa mai un “diritto acquisito” in capo al contribuente. Il governo può tranquillamente revocarla in qualsiasi momento, anche retroattivamente, senza incorrere in censure di incostituzionalità.

Nell’ordinamento italiano, quindi, non c’è nessuna previsione che possa anche solo rallentare la progressiva invadenza del settore pubblico a danno del settore privato. Le imposte, la spesa pubblica, il debito pubblico e la burocrazia possono solo aumentare, mai diminuire, mentre le misure di segno opposto rischiano sempre la bocciatura per incostituzionalità, dato che danneggerebbero questo o quel “diritto acquisito”. Vitalizi, pensioni retributive e stipendi degli statali sembrano dunque diventati variabili indipendenti dall’economia. Se anche il prodotto interno lordo italiano dovesse dimezzarsi, i ceti produttivi dovranno saldare questi impegni fino all’ultimo euro. In questo modo l’Italia è diventata un inferno fiscale, uno stato di polizia tributaria nel quale fare attività d’impresa è diventato molto pericoloso. Aprire la partita IVA significa diventare un bersaglio dello Stato, che può saltarti addosso con tutto il suo apparato e un po’ alla volta portarti via la tranquillità personale, i risparmi, l’attività, la casa e nei casi più tragici anche la vita.

Sfogliando le pagine economiche dei quotidiani si possono trovare appaiate quasi ogni giorno due generi di notizie: da un lato nuovi privilegi, aumenti e benefit concessi a questa o quella categoria statale; dall’altra nuove tasse, multe, sanzioni e restrizioni imposte alle categorie private. Le pagine di cronaca riportano frequenti casi di sanzioni stratosferiche a imprenditori, professionisti, artigiani o commercianti per questioni formali della minima importanza, e numerosi casi di totale impunità per i dipendenti statali responsabili di mancanze gravissime o addirittura reati: pare che nemmeno chi venga scoperto commettere furti o rapine sul luogo di lavoro possa essere licenziato. Queste misure discriminatorie hanno determinato una situazione fortemente sbilanciata.

Fino a qualche decennio fa, invece, c’era un certo equilibrio tra le condizioni di impiego nel settore privato e nel settore pubblico. Soprattutto nelle regioni del nord il settore privato garantiva gli stipendi più elevati, tanto che, negli anni Sessanta, un operaio della Fiat guadagnava più di un impiegato pubblico. Oggi una situazione del genere è diventata impensabile. In Italia, come ricordava Oscar Giannino in una recente trasmissione radiofonica, la retribuzione lorda è mediamente di € 33.000 nel settore pubblico e di € 23.400 nel settore privato; in Francia è di € 35.000 nel pubblico e di € 34.000 nel privato; in Gran Bretagna è di € 34.000 nel pubblico e di € 38.000 nel privato. Anche per quanto riguarda le pensioni, in Italia quelle degli statali sono del 72 % più alte rispetto a quelle dei privati, malgrado la crescente esosità dei contributi previdenziali imposti a questi ultimi.

Solo in Italia esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Al vertice della casta statale si trovano circa un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit, e che si sono assicurate un flusso crescente di entrate personali per mezzo di metodi fiscali incivili e vessatori sanciti dalla legge a danno dei lavoratori non garantiti: solve et repete,accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, ecosì via.

Questa persecuzione fiscale delle attività private ha arricchito notevolmente le categorie che vivono di spesa pubblica, ma ha prodotto delle conseguenze rovinose sull’economia del suo complesso. Negli anni ’50 e ’60, quando le tasse erano basse e i controlli fiscali molto blandi, l’economia cresceva a due cifre e gli italiani sono passati dalla miseria al benessere; negli anni ’70 e ’80 le tasse e la spesa pubblica sono aumentate e la crescita è diminuita; negli anni ’90 e 2000 tasse e spese sono ulteriormente aumentate e la crescita si è arrestata; oggi l’imposizione fiscale e la spesa pubblica sono elevatissime, il paese è in recessione perenne e gli italiani si stanno impoverendo.

Questa guerra scatenata dallo Stato contro l’apparato produttivo del paese, tuttora in pieno svolgimento, non ha alcuna giustificazione razionale, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista economico. La spesa pubblica italiana era considerata eccessiva già negli anni Novanta; pochi ne chiedevano l’ulteriore aumento, nessuno chiedeva di raddoppiarla in meno di vent’anni. Nella società italiana non è mai esistita una domanda di “maggior Stato” tale da giustificare quell’elenco interminabile di nuove tasse introdotte negli ultimi anni.

Anche dal punto di vista economico questa offensiva fiscale non sembra avere una legittimazione plausibile. La decisione delle classi governanti di dare il via all’escalation di tasse e spesa pubblica non ha migliorato il livello qualitativo di nessun servizio pubblico rispetto a vent’anni fa, ma ha aumentato a dismisura le occasioni di spreco e di corruzione, la corsa ai privilegi odiosi e ingiustificati, ha distrutto una larga fetta del tessuto produttivo privato costringendo alla chiusura centinaia di migliaia di piccole imprese, ha provocato l’aumento della disoccupazione e più in generale l’abbassamento del tenore di vita delle famiglie.

Quando la tassazione supera un certo livello, l’equilibrio pacifico tra la classe dei pagatori di tasse e quella dei consumatori di tasse si rompe, e i ceti produttivi diventano le vittime sacrificali delle caste legate allo Stato. Oggi infatti viviamo in uno Stato classista che perseguita e depreda i lavoratori del settore privato, cioè gli unici che di fatto producono ricchezza e sopportano per intero il carico fiscale, per tutelare e mantenere legioni di statali improduttivi supertutelati, pensionati d’oro o baby, membri privilegiati della casta e altri sprechi colossali. Ma quando il numero dei consumatori di tasse diventa troppo alto rispetto a quello dei produttori, la società muore.

In definitiva, è difficile chiamare “Costituzione”, almeno nel senso classico del termine, una carta che tutela solo i membri dell’apparato statale a scapito del resto della popolazione. Fino ad oggi la Costituzione della Repubblica Italiana non è mai stata intesa dei politici, dei magistrati e dei giuristi come uno strumento di protezione della società civile dal potere, ma come base di partenza ideologica per la sua progressiva espansione. Tutto questo non dipende solo da un’interpretazione deformante del testo costituzionale, ma anche dai difetti genetici del dettato costituzionale, così nitidamente messi in luce da Federico Cartelli.

Postfazione del libro di Federico Cartelli, Costituzione, Stato e crisi. Eresie di libertà per un paese di sudditi, StreetLib, 2017, p. 138, prefazione di Carlo Lottieri, postfazione di Guglielmo Piombini.

Il libro è ordinabile presso la Libreria del Ponte

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5 COMMENTS

  1. Ottimo testo. Si può scegliere se riflettere o piangere, alla fine sono lecite e doverose, direi, ambedue le cose. Solo l’indipendenza potrà portare cambiamenti radicali. Altrimenti, il destino è di diventare come l’URSS negli anni Ottanta del secolo passato. Buon 2018, a chi resisterà.

  2. La Costituzione più bella del mondo ci ha fatto cadere dalla “padella” fascista alla “brace” del consumismo globalizzato . E la hanno costruita talmente bene che non c’è modo di cambiarla con metodi democratici . Si sono parati il sedere con un muro davvero invalicabile .
    Oggi chi trova il coraggio di aprire una partita IVA non si rende conto delle difficoltà che incontrerà lungo la strada .
    Chi è ormai anziano pensa preoccupato all’avvenire di figli e nipoti . Se la vedranno davvero dura.
    Solo un miracolo o un evento altamente traumatico come una guerra forse riuscirebbero a ribaltare l’andazzo .
    Cordiali saluti ed auguri di Buone Feste a tutti.
    Aldo 47

  3. art.1. L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro…
    di quelli che sgobbano da mattina a sera per mantenere quelli che pensano solo a come sfruttarli…..
    Una meraviglia!

  4. Dimenticavo di sottolineare la legge Bassanini (Legge 16 giugno 1998, n. 191) che ha di fatto NOMINATO i RE D’ITALIA per servirci meglio.
    Bella mossa anche questa per togliere al popolo la sua mano dal potere.
    Pero’ tutto sta nell’art. 1 della carta piu’ schifosa del mondo liberista ma piu’ bella del mondo KOMUNISTA..!
    Aggiungo poi che si deve tener conto anche del sistema che pare lontano, magari, dal potere istituzionale ma che, invece, e’ molto vicino e cioe’ quello mafioso.
    Del resto le mafie abbondano nello stato chiamato italia.
    Auguri… e: se tutto va bene siamo rovinati.

  5. Mi sono sempre chiesto come mai l’intellighenzia italiana non se ne sia mai accorta che la carta piu’ bella del mondo in effetti e’ la peggiore..?
    E’ di fatto una carta che va bene in ex URSS. Nei mondi KOMUNISTI.
    Poi, qua in italia, non e’ mai stata rispettata specie nei punti dove parerebbe dare diritti agli ignari schiavi di roma da sempre predona. (mai stata ladrona ma predona sin dalla nascita e purtroppo continua).
    Siamo alla DDR maniera, scrivevo.
    Anche quella repubblica li’ si chiamava democratica… con un bel muro… a sua difesa..?
    Si difendeva dai suoi stessi cittadini..?
    Qua e’ uguale e kompagna.
    Non serve, scrivevo, andare a votare perche’ si osservi in 150 anni cosa abbiamo cambiato col nostro voto, per noi schiavi di roma non cambia mai nulla.
    E anche in Spagna il voto non serve a nulla proprio perche’ se noi abbiamo l’una e indivisibile loro hanno l’art. 155.
    Se si sveglia un intellettuale alla volta o ogni tanto hai voglia di liberarti a presto dal nemico e tiranno stato: il T_REX.
    Tuttavia ben venga il libro che in qualche modo disincanta.
    E con queste mie brevissime e misere note saluto non prima di augurare buon Natale e buone feste a tutti i lettori e tutta la Redazione che ci permette un dialogo.
    Grazie per l’attenzione e cordiali saluti…

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