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Lo statalismo sfrenato è la causa della vendita delle aziende italiane

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di FABRIZIO DAL COL

È l’Italia che non c’è più. Una lenta e agonizzante perdita delle aziende italiane, un tempo vanto della penisola, che vengono acquistate da multinazionali straniere. Già nel 2012 scrivevo che il corso della deindustrializzazione italiana sarebbe stata inevitabile ed ecco che negli ultimi tre anni, le più grandi lobby finanziarie internazionali si sono scatenate per comprare a saldo ciò che da sempre faceva gola: i marchi italiani più famosi.

Qui i marchi italiani venduti all’estero

maechi-venduti

La (fonte) della lista: alla quale andrebbero però aggiunte quelle relative al 2014 e al primo trimestre del 2015. Pirelli in testa. Comunque, questa lista è molo significativa, e mostra già oggi, che la monetizzazione delle eccellenze italiane, delle aziende italiane finite all’estero, e tra non molto, con i dati mancanti  aggiorneremo anche questa.

1998: Locatelli (Svizzera) San Pellegrino (Svizzera) 1999: Algida (Unilever) 2000: Emilio Pucci (Arnault, Francia) Fiat Ferroviaria (Alstom, Francia) 2001: Bottega Veneta (Francia) Fendi (Francia) 2003: Peroni (Sudafrica) Sps Italiana Pack Systems (Usa) 2005: Acciaierie Lucchini (Russia) Benelli (Cina) 2006: Carapelli Sasso e Bertolli (Spagna) Galbani (Francia) 2008: Osvaldo Cariboni (Alstom, Francia) 2009: Fiat Avio (divisione Fiat per il settore aerospaziale) (Usa,Inghilterra) 2010: Fastweb (Svizzera, aveva già parte delle azioni dal 2007) Belfe (Sud Corea) Lario (Sud Corea) Boschetti alimentare (confetture) (Francia) 2011:
Gancia (Russia) Fiorucci (salumi) (Spagna) Parmalat (Lactalis, Francia) Bulgari (Francia) Brioni (Francia) Wind (Russia, prima Egitto) Edison (Francia) Mandarina Duck (Sud Corea) Loquendo (leader nelle tecnologie di riconoscimento vocale) (Usa) Eridania (zucchero) (Francia) 2012: Star (Spagna) Controlla i marchi RisoChef, Pummarò, Sogni d’Oro, GranRagù Star, Orzo Bimbo ed Olita Ducati (Germania) Eskigel (produzione gelati per varie catene di supermercati) (UK) Valentino (Qatar) Ferretti (nautica) (Cina) AR Pelati (pomodori) (Giappone) Coccinelle (Sud Corea) Sixty (Cina) Proprietaria dei marchi Miss Sixty e Energie 2013: Richard Ginori (venduta a Gucci, Francese) Loro Piana (Francia) Pernigotti (Turchia) Chianti Gallo Nero Docg (Cina) Pomellato (Francia) Scotti Oro (Spagna per il 25%)

L’ultima azienda famosa di questa lista è Indesit, l’azienda di elettrodomestici, finita in mani americane. La famiglia Merloni, infatti, ha ceduto a Whirpool la sua partecipazione di Fineldo del 60,4% del capitale dell’azienda.Ma diamo uno scorcio ai numeri: 2008 – 2012  437 aziende italiane  sono passate in mani straniere (dato del rapporto Eurispes)  circa 55 miliardi di euro spesi per comprare i marchi italiani  ma sono soldi che sono andati a finire nelle casse delle vecchie proprietà, non portando valore aggiunto al Paese. Le acquisizioni per il settore manifatturiero dell’arredo-casa riguardano soprattutto i sotto-settori della ceramica, dell’illuminazione, e dei mobili da cucina, tre dei comparti di maggior eccellenza del Made in Italy. Negli anni Novanta le acquisizioni più importanti coinvolgono la Pozzi-Ginori, la Ceramica Dolomite e le Ceramiche Senesi, mentre più recente (2013) la cessione in mani straniere del Gruppo Marrazzi, leader internazionale nel settore delle piastrelle di ceramica. E l’ultima perla dell’arredamento, Poltrona Frau. Uno degli ultimi marchi a perdere la proprietà italiana è stata la Garofalo a giugno di quest’anno, acquistata per il 52% da Ebro Foods. Secondo i dati diffusi dalla Coldiretti il valore dei soli marchi alimentari italiani venduti all’estero dal 2008 ad oggi oltrepassa i 10 miliardi.

In sostanza, l’Italia, incapace di liberarsi del suo statalismo sfrenato che produce oltre 800 mld di spesa  pubblica, dei partiti che hanno la convenienza di garantirsi il voto di scambio, se non taglia subito le tasse, si renderà responsabile di aver desertificato l’industria e ucciso il mondo del lavoro. Senza ciò, non vedrà mai più una sua ripresa economica e tanto meno potrà competere col resto della Ue. La politica ha capito che lo sfascio totale è inevitabile, e quindi, la sua ratio è quella di arraffare sempre di più. Le imprese italiane, visti i presupposti di cui sopra, oggi si rendendo conto che l’Italia non ce la può fare; si era già piegata con l’adesione alla Ue per evitare un default scontato, mentre oggi, con la complicità della politica di ieri,  si è piegata al complotto ordito dalle lobby economico finanziarie e alla stessa Ue, per favorire gli stati che sognano l’ egemonia sul futuro dell’Europa politica. Quindi, è come se l’Italia  avesse  già deciso di diventare un protettorato di qualcun’ altro, e quindi  basta preoccuparsi, tanto poi ci pensa lo “stellone italiano” a salvare il Belpaese. Perché meravigliarsi allora se oggi cedono le aziende?

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3 COMMENTS

  1. Certo è che se gli industriali vedono che il gioco ,in italia, non vale più la candela , allora cedono baracca e burattini , fanno cassa e salutano la compagnia.
    Farei così anch’io.
    O vendono o traslocano.
    Li capisco perfettamente.
    Non c’è rimedio, con governi come l’attuale, e con uno stato come quello italiano, quello della costituzione più bella del mondo.

    Inutile illudersi.

  2. Nulla si può più fare se prima non si trasforma lo Stato unitario. Sovranità cedute, e potere interno centralizzato, che continua ad aumentare le tasse e la spesa pubblica, fanno dell’Italia uno Stato fallito.

  3. Ieri c’era un articolo sui paradisi fiscali e Stati che mantengono il segreto bancario.
    Credi che sia doveroso iniziare a pianificare il periodo post indipendenza.
    Servirebbe uno studio sui pro e contro di avere in Padania il segreto bancario come lo aveva la Svizzera tempo fa, effetti sulle esportazioni ed eventuali sanzioni economiche. Aggiungo che occorre anche uno studio su come far rientrare le aziende padane che hanno delocalizzato solo la produzione o completamente come far ritornare padani marchi che gli occupanti italiani hanno svenduto o fatto svendere (nazionalizzazioni, ecc.)

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