di ROMANO BRACALINI
C’era una volta Milano, paradigma dell’Italia civile. Il tratto cordiale e l’onestà non erano un mero attributo di retorica. Il sindaco Bucalossi andava a palazzo Marino a piedi. Lo incontravo spesso in via Manzoni. La gente lo salutava, rispondeva pacato e sorridente. Il potere, come al tempo di Radetzky, non temeva di mescolarsi con la gente. Milano era diversa. Il traffico ordinato e silenzioso, come a Vienna. La città si ergeva con la forza dell’esempio morale e creativo sul resto della penisola. Filippo Turati, interpretandone le aspirazioni e i caratteri, sognava uno “Stato di Milano”, che significava l’applcazione delle regole federali in ogni regione; lui preferiva dire: Stato. C’erano differenze demografiche che rendevano incompatibili le due Italie. Inutilmente Turati parlava di “doppia morale”. Le elezioni al Sud erano una farsa. Si ricorreva al voto di scambio, un’invenzione meridionale. La mafia faceva eleggere i suoi uomini.
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