di REDAZIONE
«W l’Italia, dopo otto anni sono finalmente libero». Manuele Barbisan ha scritto queste poche parole su un foglio bianco preso dal bancone del suo bar, poi si è infilato il cappio al collo e si è ucciso nel retrobottega del locale di piazza San Vito a Treviso, quel locale che doveva essere il suo sogno, ed è diventato la sua condanna.
Trentasette anni, amatissimo, conosciutissimo, onesto, Barbisan dietro il sorriso e la serenità che ostentava con amici e parenti, nascondeva un baratro profondo, fatto di paure e sensi di colpa. Aveva l’angoscia di non riuscire a fare fronte ai conti di quel Caffè la Corte che aveva rilevato un anno fa liquidando l’ex ragazza e socia Roberta Quaggiotto. Temeva per sè, per il suo senso di responsabilità, ma anche per il padre Danilo, che aveva garantito la sua impresa ipotecando la casa.
Il timore di mettere nei guai lui, di «scaricare» su papà la responsabilità dei debiti, come ogni tanto lasciava trapelare agli a
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