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Dalla parte di lee, a 150 anni dalla fine della guerra di secessione

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Lee_Grantdi ALBERTO PASOLINI ZANELLI*

Quest’anno ricorrono i 150 anni dalla fine della guerra di secessione americana

Cercherò di raccontare una guerra. In queste poche righe cercherò di spiegare il perché di questo racconto. É opportuno farlo perché si tratta di un conflitto molto noto e nel contempo, almeno in apparenza, remoto nel calendario e nello spazio. Una guerra civile fra americani (una Guerra fra gli Stati, nella definizione preferita da uno dei belligeranti) in un momento in cui gli Stati Uniti avevano perso il diritto di chiamarsi così (anche se l’altro belligerante mantenne sempre questo nome); una guerra ufficialmente scoppiata per un motivo oggi quasi inintelligibile quale l’istituto della schiavitù. Una guerra “locale” che può parere un reperto archeologico nel momento in cui una parte importante della classe dirigente di Washington reclama il diritto e la necessità di una “governance” globale che è un eufemismo per impero planetario. Che significato, che interesse può avere per noi?

Molto. Innanzitutto perché è stata la prima guerra moderna. Quella che tenne a battesimo la prima corazzata e il primo sommergibile, la prima guerra su suolo americano senza che almeno uno dei belligeranti fosse europeo, la prima guerra industriale, che reintrodusse nel mondo moderno la strategia militare della terra bruciata e del suo corollario diplomatico, la resa senza condizioni: tutte caratteristiche fra le più marcanti delle due guerre mondiali del XX secolo. Secolo di cui gli Europei continuano a prendere le misure. Nessuno pretende che sia durato proprio cent’anni, qualcuno lo vede più lungo, la maggioranza più corto. C’é quasi accordo, per ora, su quando sarebbe spirato: nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, e chi (più propriamente) con il dicembre 1991, il momento in cui la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino, sotto gli occhi di tutto il mondo simbolicamente presente sulla Piazza Rossa. Ma è la data di nascita che è controversa, ed è quella che conta. Il secolo defunto è corto se lo si fa partire dal 1914, molto lungo invece per chi si attenta ad anticipare la data, sulla base delle evidenze e degli indizi cui ho appena accennato, al 1861, se si mettono le cannonate di Fort Sumter al posto delle revolverate di Sarajevo. Ancora una volta si realizzò una profezia di Edmund Burke. “Una guerra non lascia mai una nazione come l’ha trovata. Per questo prima di imbarcarcisi è meglio pensarci due volte”. Lo aveva scritto nel 1796, nel pieno dell’incendio rivoluzionario appiccato da Parigi a tutto il Vecchio Mondo. Centoventi anni dopo l’Europa si buttò nella fornace senza pensarci affatto. A metà strada fra le due stragi, la guerra civile americana fece l’esperimento.

L’egemonia mondiale dell’Europa si sarebbe consumata in quattro anni di Somme e di Verdun, di dissanguamento insensato e criminale; ma l’erede (o più semplicemente il successore), si era presentato ufficialmente cinquant’anni prima in due giorni, fra il 3 e il 4 luglio 1863, con le decisive vittorie gemelle dell’Unione a Vicksburg, nel Mississippi, e a Gettysburg, in Pennsylvania. Il Secolo di Ferro è coevo del Secolo Americano. Fino al giorno prima i governi delle due maggiori Potenze del Vecchio Continente, la Gran Bretagna e la Francia atteso un altro, ancora un altro successo militare del Sud per riconoscere la Confederazione, gettare sulla bilancia a suo vantaggio il proprio peso diplomatico e militare, sancire l’atrofizzazione o addirittura la fine degli Stati Uniti come li abbiamo conosciuti poi. Non tutta l’Europa condivideva tali sentimenti. Sostenevano l’Unione e la “democrazia repubblicana” tutte le svariate Sinistre, dai liberali inglesi ai socialisti francesi ai rivoluzionari tedeschi e polacchi, da Giuseppe Garibaldi (che fu sul punto di essere ingaggiato per guidare un’armata nordista) a Karl Marx, che quando Lincoln fu rieletto gli inviò, a nome dell’Internazionale, un caloroso messaggio di felicitazioni. Avevano il cuore a Sud i conservatori europei in genere, molti cattolici a cominciare da Pio IX, più di tutti Napoleone III, che concepì anche in funzione antiamericana l’avventura militare francese in Messico. Egli tentò di praticare ante litteram quel concetto di containment che doveva diventare la strategia ufficiale degli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo.

E le spinte espansionistiche da contenere esistevano. Erano in nuce nella Dottrina Monroe, esposta da quel presidente già nel 1823 e che consisteva nell’esclusione dell’Europa non solo dall’America settentrionale ma da tutto l’Emisfero. Erano fiorite nella proclamazione del Manifest Destiny, la guerra contro il Messico con l’annessione di più di un terzo del suo territorio. Nel 1853 Stephen Douglas, futuro rivale di Lincoln per la leedixiepresidenza, annunciò che questo Destino non lo si sarebbe potuto limitare con dei trattati internazionali: “Potete farne quante ne volete per contenere questa repubblica gigante, ma lei li farà scoppiare e continuerà a crescere fino ad un limite che non mi attento a prescrivere”.

Lincoln era più prudente e più attento. Lavorava anch’egli all’espansione futura della potenza americana, ma la sua strategia era, come il suo vocabolario, meno aggressiva e incruenta, anche se fu poi causa immediata della guerra civile. Si chiamava protezionismo industriale. Come vedremo Lincoln era disposto a quasi ogni compromesso sulla questione della schiavitù. Non era mai stato un abolizionista e aveva sempre promesso di rispettare i diritti degli Stati che intendevano conservare quella peculiare istituzione. Lo ribadì anche nel suo discorso inaugurale alla Casa Bianca: “Non ho il diritto legale di abolirla negli Stati in cui esiste, né ho il desiderio di farlo”. In altre occasioni ripeté che il suo solo, vero obiettivo era “la preservazione dell’Unione: se per far questo occorre mantenere la schiavitù lo farò, se occorrerà abolirla la abolirò”.

Su un punto invece era assolutamente intransigente: il potenziamento degli Stati Uniti attraverso lo sviluppo industriale e, a questo fine, il protezionismo, il centralismo, l’importazione in massa sia di capitali che di manodopera (dunque porte aperte all’immigrazione), la lotta per la conquista dei mercati mondiali per i prodotti americani. Tutto questo richiedeva la costruzione rapida e generosa delle necessarie strutture, a cominciare dalla costruzione di strade e ferrovie su scala continentale. Sotto forma di cospicui incentivi alle aziende, private, che se ne volessero incaricare. Erano necessari per uno sviluppo “imperiale” interno su linee non dissimili dal mercantilismo che aveva retto l’Inghilterra e nel XVII e nel XVIII secolo, prima della svolta liberista dell’Ottocento. “Sistema americano” aveva chiamato questo progetto Henry Clay, il suo più coerente propugnatore di cui Lincoln doveva essere l’erede. Tutto questo costava molti dollari e per reperirli il governo federale (in tempi in cui l’imposta sul reddito doveva ancora essere inventata) non poteva contare che su tasse sui consumi e, soprattutto, sulle tariffe doganali, che costituivano nel 1860 il 95 per cento dei suoi introiti.

Gran parte dell’aggravio sarebbe pesato sugli Stati del Sud, assai scarsamente industrializzati e che importavano dall’Europa gran parte dei manufatti, pagandoli con i proventi delle esportazioni di cotone. Come molte società agricole, il Sud prosperava sui liberi scambi, intuiva che sarebbe stato rovinato dal protezionismo industriale (e lo fu, durante la guerra e per lunghi decenni di dopoguerra) e avrebbe dovuto coprirne i costi. Fu questo, non l’attaccamento alle istituzioni schiaviste, che spinse i suoi dirigenti verso la soluzione disperata della Secessione. L’elezione di Lincoln inasprì tali timori, soprattutto quando quest’ultimo, due settimane prima di prendere posto alla Casa Bianca, ribadì, in un discorso agli industriali di Pittsburgh, che la cosa più urgente da fare era aumentare le tariffe doganali; e infatti, non appena insediato, le raddoppiò (e lo avrebbe fatto altre dieci volte durante la sua presidenza). La Confederazione, appena proclamata, reagì dichiarando incostituzionale ogni dazio – e si apprestava a creare una “zona di libero scambio” che avrebbe deviato sui porti meridionali gran parte del traffico privandone il Nord. Per impedirlo Lincoln ricorse subito al blocco navale dei porti sudisti e annunciò la decisione di invadere militarmente gli Stati ribelli. E così la guerra prese il suo corso fino alle estreme conseguenze.

LEE-BISIn tutte queste decisioni la sorte degli schiavi ebbe un ruolo molto secondario. Esso crebbe invece continuamente durante il conflitto, caratterizzandolo sempre di più in senso emotivo e “ideologico” e dunque radicalizzandolo. Gli abolizionisti, in minoranza nel Nord fino allo scoppio delle ostilità, acquistarono rapidamente peso nel Nord, fornendo a milioni di cittadini una motivazione ideale e morale. É una costante, del resto, delle guerre “democratiche”. Esse richiedono, per avere un sostegno popolare di cui i monarchi o gli oligarchi fino al XVIII secolo non avevano avuto bisogno, una forte tensione psicologica, una mobilitazione delle coscienze e delle passioni, che crea consenso e stimola la disponibilità ai sacrifici. Per questo le democrazie sono in genere aggredite, ma in più hanno bisogno di apparirlo anche quando non lo sono. Per questo spesso le guerre suscitano in un paese democratico un senso di superiorità morale, se non addirittura di crociata, che si traduce anche nella demonizzazione del nemico. Un odio virtuoso e una sete di giustizia punitiva forte quanto il desiderio di rivalsa, che inevitabilmente rende poi sempre più difficili soluzioni “a metà”, compromessi e magari scambi di territori (o fra territori e danaro) che erano la regola prima della politicizzazione delle masse. Insomma, i compromessi. La dinamica psicologica di una democrazia in guerra genera così la richiesta di “resa incondizionata” che dalla Guerra Civile in corso é tipica della conduzione bellico americana.

Anche in questo il conflitto fra Nord e Sud ha “aperto” il XX secolo. E ha dimostrato la fallacia di un assioma tante volte ripetuto: che le guerre possono scoppiare solo fra dittature o fra una dittatura e un paese democratico, mai fra democrazie. Nella Guerra Civile americana si affrontarono due democrazie, rette dalla medesima Costituzione: una rurale, arcaizzante, dal futuro minato moralmente ed economicamente dalla sopravvivenza della schiavitù, e una industriale, in crescita vertiginosa e implicitamente imperiale; e mai come ai giorni nostri si può constatare quanto quest’ultima concezione abbia messo radici in America. Si combatterono all’ultimo sangue, sotto la guida di capi militari sempre più politicizzati, ideologizzati. L’esempio più ovvio fu l’organizzatore della vittoria US Grant. US come Ulysses Simpson, i suoi nomi di battesimo, ma anche come United States e soprattutto come Unconditional Surrender, Resa Incondizionata.

L’eccezione fu l’eroe e il mito degli sconfitti: Robert E. Lee. L’uomo a cavallo che tenne in scacco per quattro anni la macchina militare-industriale. L’ultimo condottiero dell’Ottocento contro la nostra era che irrompeva in anticipo, sintesi e simbolo della resistenza alla trasformazione, ma anche testimone della trasformazione. Per tale motivo, oltre che per le sue gesta, gli è riservato in queste pagine un ruolo a parte. Di narratore oltre che di protagonista.

*PREFAZIONE AL LIBRO “DALLA PARTE DI LEE” (Leonardo Facco Editore) – 6ª EDIZIONE

In collaborazione con LIBRERIA DEL PONTE

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7 COMMENTS

  1. Gli schiavisti del Sud formavano una piccola minoranza degli americani di origine europea. Inoltre c’erano più schiavi bianchi che schiavi neri.

  2. Capisco la necessità di rivisitare la storia con altri occhi, di avere in odio ogni conformismo, di svelare l’impostore che impersona il mito.
    Sta bene sottolineare che la guerra di secessione non era esattamente la guerra per l’abolizione della schiavitù.
    Da qua a prendere le parti di stati per i quali la schiavitù era tollerabile è semplicemente inacettabile per una prospettiva libertaria. Ricordo, tra gli altri, un brano di Rothbard (http://mises.org/library/brutality-slavery).
    Inoltre, prese di posizione come queste (peraltro inutili) sono la manna dal cielo per ogni gonzo antilibertario.
    La mia domanda è: perché farci del male da soli?

    • @Murray
      Essere dalla parte di Lee significa essere dalla parte del diritto di autodeterminazione dei popoli, un concetto parecchio scomodo anche a parecchi sedicenti amanti della libertà.
      Benché dia parecchio fastidio al “politicamente corretto”, gli Stati confederati avevano tutto il diritto di secedere dall’Unione americana aldilà dell’istituto della schiavitù (che peraltro non fu il principale motivo della loro secessione, che Lee non condivideva e che era presente sin dalla guerra d’indipendenza americana), come ricorda anche Walter Block.
      Piuttosto vorremmo sapere da lei (che di certo non si chiama Murray) dove su questo sito o nel libro recensito si farebbe apologia della schiavitù.
      Stia sereno che su questo sito abbiamo una conoscenza piuttosto approfondita e coerente del libertarianism senza che qualcuno ci venga ad insegnare cosa dovremmo scrivere e pensare.

      • Avevo mandato una controreplica questa mattina, ma evidentemente qualcosa è andato storto.
        Ci riprovo.
        Nel mio commento concludevo con una domanda: “Perché farci del male da soli?”.
        Nessuna pretesa di attentare all’ortodossia di cui siete depositari, quindi.
        Da sedicente libertario (che credo sia sinonimo di “colui che osa avanzare opinione diversa dai sacerdoti”) ricordo che l’autodeterminazione dei popoli è una causa tanto strumentalizzata che nel corso del tempo ebbe come sostenitori pure Lincoln e Lenin (http://vonmises.it/2013/09/09/ripensare-la-secessione-ii-parte/)
        Il mio intervento è mirato a capire perché introdurre temi che non aggiungono alcunché alla causa libertaria e che invece offrono il fianco alle critiche, come se già questa causa non ne fosse sommersa.
        Se poi a te sta bene bollare tutto questo come “buonismo”, “antilibertario”, “politicamente corretto” e bla e bla e bla, tutto ok, figurati.
        Dico solo che se devo scegliere di morire durissimo e purissimo oppure finire i miei giorni in una società un po’ più libera dalle grinfie dello stato (seppur non un paradiso dell’anarcocapitalismo), scelgo la seconda e vi chiedo, senza polemica, perché secondo te è preferibile la prima, perché è questa l’impressione che si ricava da post come questi.
        Rinnovo i complimenti per il lavoro che fai/fate, davvero grande, e anche per questo mi dispiace osservare che tanti meritevoli sforzi finiscano per essere diretti ai convertiti e non a un nuovo pubblico.
        Ciao

        • @Murray
          Perché farci male da soli? E chi lo dice, a parte lei, che ci facciamo male da soli?. Piuttosto appare alquanto pretestuoso asserire polemicamente che esistano “sacerdoti” circa il libertarianism.
          Chi propugna tal genere di asserzioni dimostra di essere in malafede o di capirne ben poco di ciò di cui si sta parlando, e questo non lo dico da alcun pulpito ma da un’analisi delle sue risposte.
          In primo luogo il libertarianism è una filosofia politica in difesa dei diritti naturali e del limite dell’uso della forza e non una religione. Chi asserisce, come lei, che è una religione dimostra di non essere sinceramente interessato al libertarianism, dunque con ogni probabilità vi è la forte sensazione che lei voglia solo muovere aria fritta con l’intento di infangare chi divulga tale filosofia parlando di “setta”, proprio come quei libbbberali che asseriscono “l’inesistenza” della scuola economica austriaca.
          In secondo luogo lei ha postato qua un link all’articolo del Mises Italia nel quale si citano tra gli altri degli aforismi di Lincoln come se ciò costituisse una contraddizione al libro di Pasolini Zanelli.
          In realtà il libro di Pasolini Zanelli conferma nei fatti la strumentalità del principio di autodeterminazione parzialmente sostenuto da Lincoln in alcuni suoi discorsi o scritti politici.
          Il fatto che Lincoln o Lenin abbiano parlato retoricamente del principio di autodeterminazione senza poi adottarlo, non ridimensiona il principio di autodeterminazione quanto piuttosto quei due personaggi.
          Sicché davvero non si comprende quale critica lei vuole sollevare dinnanzi alla dimostrazione dell’incoerente applicazione dell’autodeterminazione dei popoli da parte di Lincoln denunciata peraltro dall’autore del libro in occasione della Guerra Civile.
          Il secessionismo e il principio di autodeterminazione sono da sempre dei principi cardine dei libertari, sicché non si capisce a quali critiche noi andremmo incontro nel promuoverli coerentemente in ogni contesto storico o geografico.
          Il principio di autodeterminazione viene applicato dai libertari anche per quanto riguarda la Csa e la Guerra Civile aldilà che lei lo gradisca oppure no, dato che non ha a che fare con la questione della schiavitù e con le motivazioni della guerra.
          Le uniche critiche ricevute dai lettori per quanto qua pubblicato sono le sue, si faccia dunque un esame di coscienza.
          Qui nessuno cerca la purezza, la morte e la schiavitù dei lettori promuovendo l’autodeterminazione e la secessione.
          Se lei vuole meno Stato deve difendere il principio di secessione individuale proprietaria e dei territori.
          Se lei crede invece, da sedicente libertario quale lei si dichiara, a un pragmatismo delle poltrone romane e delle riforme quale strumento per ottenere libertà e meno Stato in Italia, beh allora è lei l’utopista, non certo chi propugna la secessione e l’anarcocapitalismo (che nessun libertario ha mai asserito essere un paradiso o il regno della perfezione).
          E’ mia personale constatazione che lei è venuto qua a polemizzare su cosa dovrebbe essere da noi pubblicato sul MiglioVerde o divulgato come “storicamente corretto” sulla Guerra Civile americana e sulla figura di Lincoln e/o di “politicamente corretto” sul libertarianism, contestando la promozione di un libro storicamente ineccepibile edito dalla Leonardo Facco Editore/Movimento Libertario.
          Per giunta lei viene qua a muovere delle critiche firmandosi con un nickname e pretendendo che la redazione le recepisca evitando di darle adeguate risposte.
          Le ribadisco che per ottenere ascolto è necessario che lei cambi registro nel linguaggio degnandosi prima di leggre il libro qua presentato.
          Se i suoi fossero dei sinceri apprezzamenti per il nostro lavoro, capirebbe che noi stiamo divulgando idee, promuovendo libri e facendo informazione e cultura.
          Il libro di Pasolini Zanelli è un libro di storia americana e non di libertarianismo in senso stretto.
          Tuttavia i fatti raccontati sono condivisi dai libertari non sedicenti tali, aldilà che siano miniarchici o ancap.
          Come dimostrano le condivisioni degli articoli e il seguito di lettori sui social media di questa rivista, tale nostro lavoro di redazione trova apprezzamento presso un largo nuovo pubblico.
          Nessuno qua chiede “conversioni” a differenza di lei che viene qua a voler imporre alla redazione la sua visione di cosa dovremmo noi scrivere o pubblicare come “cosa buona e giusta” su questo sito.
          Chi è lettore e abbonato del MiglioVerde lo fa per sua libera scelta e giudizio, conoscere per deliberare direbbe Luigi Einaudi.
          Accettiamo critiche e puntualizzazioni dai lettori, ma devono avere toni non offensivi verso la redazione.
          Per muovere stroncature sugli articoli qua pubblicati è necessaria una argomentazione con serie e specifiche motivazioni di contenuto.
          I suoi commenti muovono generiche accuse, insinuazioni non pertinenti e non significative circa un nostro “autolesionismo”, o sedicente settarismo religioso, francamente ridicole.
          Ovviamente è possibile che non tutto ciò che pubblichiamo sia di gradimento per chi ci legge, ma questo non significa che si debbano muovere dei sommari processi alle intenzioni alla redazione.
          Se i lettori non trovano di loro gradimento gli articoli non li condividono, se non trovano di loro gradimento la rivista non si abbonano e non vengono sul nostro sito.

    • Anti-libertario è colui che punta il dito accusatore a solo uno dei colpevoli, strumentalizzando la storia per inculcare sensi di colpa in un unico gruppo etnico. Quando invece qualche temerario osa fare un quadro più completo si strilla “razzismo!”

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