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La guerra della corte costituzionale ai ceti produttivi

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corte_costituzionale - T1di GUGLIELMO PIOMBINI*

Come spiegano numerosi studi storici e sociologici, l’esistenza di un apparato statale divide sempre la società in due classi: quella dei pagatori di tasse e quella dei consumatori di tasse. I primi si guadagnano da vivere nel settore privato con attività di produzione e di scambio, e sopportano per intero il carico fiscale; i secondi, come i politici, i dipendenti statali, i pensionati e gli altri destinatari della spesa pubblica, di fatto non pagano imposte perché vivono grazie ad esse. I tax-payers privati rappresentano sempre un’entrata per lo Stato; i tax-consumers pubblici costituiscono sempre un’uscita. Se in Italia l’imposizione fiscale venisse eliminata i redditi dei primi triplicherebbero, mentre i redditi dei secondi si azzererebbero.

La recente sentenza della Corte costituzionale sull’incostituzionalità del mancato adeguamento delle pensioni più elevate segue una linea di tendenza che ormai da tempo favorisce, per partito preso, le categorie dei consumatori di tasse a danno delle categorie dei pagatori di tasse. Per la Corte i benefici che il potere politico attribuisce, anche una tantum, ai consumatori di tasse rimangono tali per sempre. Poiché è impossibile trovare nel testo della Costituzione questo principio, la Corte ha dovuto creare una dottrina su misura, quella dei “diritti acquisiti”, che non esiste in nessun altro paese al mondo e che sancisce ufficialmente una pesante discriminazione a danno dei produttori privati di reddito. La Corte infatti non riconosce un analogo diritto in capo ai pagatori di tasse privati, perché se il governo riduce un’imposta o aumenta una detrazione fiscale, questa non diventa mai un “diritto acquisito” in capo al contribuente. Il governo può tranquillamente revocarla in qualsiasi momento, anche retroattivamente, senza incorrere in censure di incostituzionalità.

La Consulta è del parere che lo Stato non possa cambiare le regole in corsa senza violare le aspettative dei pensionati, ma non ha spiegato per quale motivo lo stesso principio non valga nei frequentissimi casi in cui il governo viola le aspettative dei ceti produttivi privati, riducendogli brutalmente il reddito attraverso l’azione fiscale. Ad esempio, quando lo Stato aumenta le tasse sulla casa abbassa il suo valore, violando così le aspettative del proprietario, che magari aveva affidato a questo valore la sicurezza per la sua vecchiaia; quando lo Stato aumenta le imposte per una determinata attività produttiva, sconvolge le aspettative di guadagno del lavoratore privato; quando lo Stato come sua abitudine aumenta i contributi previdenziali sui magri guadagni dei giovani lavoratori iscritti alle gestione separata dell’Inps, abbassa improvvisamente le loro possibilità di formare una famiglia o comprarsi un’abitazione. Tutte queste situazioni, secondo la Corte costituzionale, non hanno rilevanza costituzionale e non meritano alcuna protezione. Dal suo punto di vista è molto più grave togliere qualche centinaio di euro all’anno a chi riceve dallo Stato assegni da migliaia di euro al mese.

Liberali in difesa dei diritti acquisiti

piero-ostellinoLe difese più rumorose della sentenza della Corte sono venute dai partiti di centro-destra, che per ragioni elettoralistiche sono scesi in piazza per chiedere al governo la restituzione del “maltolto” ai pensionati. Che questo enorme esborso a favore di categorie già tutelate e benestanti debba per forza ricadere sui giovani e sui ceti produttivi privati, gli unici che producono reddito e di fatto tengono i piedi l’intero sistema pensionistico, pare a Brunetta o a Salvini un dettaglio di poco conto.

Tra i difensori più convinti dei “diritti acquisiti” si è distinto Piero Ostellino su Il Giornale, secondo il quale la pensione retributiva è “un diritto maturato grazie a un contratto stipulato dal cittadino con lo Stato. È un diritto inalienabile che non dovrebbe essere soggetto ad altra condizione oltre a quelle del contratto stesso”. Ma di quale contratto sta parlando? Chi l’ha firmato, quando e come? Come spiega qualsiasi manuale di diritto, un contratto tra due parti non può mai addossare oneri a un terzo senza il suo consenso. E quando mai i giovani con partita IVA hanno firmato un “contratto” con lo Stato in cui si impegnano a versare allo Stato il 30 % dei propri redditi in cambio di una pensione da fame?

Più che da un contratto, le pensioni di favore sono sorte da un pactum sceleris tra il politico e il beneficiario del trattamento privilegiato. Lo scambio tra questi due soggetti prevedeva il sostegno elettorale in cambio della promessa di una rendita pensionistica di gran lunga superiore ai contributi versati. Le pensioni retributive sono dunque una forma di sfruttamento ai danni delle generazioni dei contribuenti più giovani, e in nulla si distinguono dai vitalizi dei politici se non per l’entità del privilegio.

Ostellino si lamenta inoltre del fatto che “le altalenanti condizioni in cui, da noi, versa la finanza pubblica hanno finito col riverberarsi sullo Stato sociale, il cui funzionamento è diventato una variabile dipendente dai conti pubblici”. Se i sindacalisti degli anni Settanta teorizzavano il salario come variabile indipendente dai profitti dell’impresa, a quanto pare alcuni liberali di oggi sono arrivati a considerare il welfare state come una variabile indipendente dalla produttività dell’economia nazionale. Quindi, se per ipotesi nei prossimi anni il pil italiano e di conseguenza il gettito fiscale dello Stato si riducesse della metà, lo “Stato sociale” dovrebbe continuare a erogare tutte le attuali prestazioni, rivalutate, come nulla fosse.

Bomba atomica sui ceti medi

STATALILa sentenza della Corte costituzionale sancisce quindi, con un’interpretazione autentica, l’enorme differenza di status tra i consumatori di tasse statali e i ceti produttivi privati. Se un tempo vi era un certo equilibrio tra l’impiego pubblico e quello privato, oggi sarebbe difficile trovare, nel mondo industrializzato, una situazione così sbilanciata come in Italia. Oltre alle condizioni di lavoro più favorevoli, i dipendenti statali godono anche di trattamenti pensionistici nettamente superiori. Secondo un recente calcolo, ad esempio, le pensioni degli statali sono mediamente più alte del 72 % rispetto a quelle dei lavoratori privati.

Ma questo non è nulla rispetto alla bomba atomica che sta per cadere sulla testa dei pagatori di tasse privati, quando il 23 giugno la Corte deciderà sul ricorso dei dipendenti pubblici che lamentano il blocco dei loro stipendi. Secondo i sindacati del pubblico impiego, il blocco introdotto nel 2010 avrebbe “eroso in maniera consistente il potere d’acquisto dei dipendenti pubblici”. Ma per quale motivo il potere d’acquisto dei dipendenti pubblici dovrebbe essere sempre salvaguardato, quando nel settore privato molti dipendenti, a causa della crisi provocata dall’eccesso di tassazione sulle imprese, hanno visto i propri stipendi non solo ridursi, ma spesso azzerarsi?

Poiché la Corte costituzionale appare schierata in maniera militante a difesa degli interessi della casta politico-burocratica di cui fa parte, non è escluso che decida a favore della nascita di questo nuovo “diritto acquisito” a favore dei dipendenti pubblici, e la recentissima sentenza della Consulta a favore della legittimità dell’aggio dell’8% che Equitalia percepisce sulle tasse riscosse non fa ben sperare. Anche lo stipendio degli statali potrebbe così diventare, non si sa per diritto costituzionale o per diritto divino, una variabile indipendente. Potrà solo crescere, mai calare, anche quando l’impiego pubblico non serve a nulla e l’economia va a rotoli. Se ciò avverrà, sarà la pietra tombale per chiunque lavori in Italia nel settore privato.

*IN COLLABORAZIONE CON LIBRERIA DEL PONTE

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