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La libertà inizia dove finisce l’ignoranza

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libertadi ENZO TRENTIN

Sosteneva Victor Hugo: «la libertà inizia dove finisce l’ignoranza». Una riflessione più che mai valida per quegli indipendentisti che guardassero al mondo delle associazioni d’arma: bersaglieri, alpini, marinai, eccetera. Dal 1° gennaio 2005 è stato sospeso il servizio militare obbligatorio con la Legge 23.08.2004 n° 226. Prima di allora chi faceva il soldato all’atto del suo congedo riceveva gratuitamente la tessera d’iscrizione all’associazione d’arma nella quale aveva militato. Da circa 10 anni questo mondo va progressivamente invecchiando – con annessi problemi di senilità – ed esaurendosi. Al contempo sembra farsi strada una damnatio memoriae (locuzione latina che significa letteralmente condanna della memoria); combinata con una sorta di schizofrenia. Il termine è derivante dalla parola greca schizophreneia e significa letteralmente “mente divisa”.

Chi ha frequentato l’associazione degli alpini ha sentito innumerevoli storie e aneddoti, per esempio, sulla battaglia dell’Ortigara, che fu un violentissimo scontro d’alta montagna combattuto dal 10 al 25 giugno 1917 tra l’esercito italiano e quello austro-ungarico, che vide 21.000 perdite italiane (2.800 morti, 16.000 feriti e 3.000 dispersi o prigionieri). L’Ortigara è sito sull’altipiano di Asiago e dal 1921 è il monte sacro degli alpini. Dallo stesso altipiano proveniva Mario Rigordi Stern autore del libro Il sergente nella neve, il cui personaggio principale: Giuanin, chiede continuamente: «Ghe riveren a baita?» (arriveremo a casa?), e il sergente invariabilmente rispondeva di sì; ma Giuanin rimase nella steppa russa. [VEDI QUI]. Vi si descrive la grande ritirata di Russia, con la battaglia di Nikolajewka, combattuta il 26 gennaio 1943. Fu uno degli scontri più importanti durante il caotico ripiegamento delle residue forze dell’Asse nella parte meridionale del fronte orientale durante la II G.M., a seguito del crollo del fronte sul Don dopo la grande offensiva dell’Armata Rossa iniziata il 12 gennaio 1943. I dati ufficiali ci dicono che gli 8-9.000 appartenenti alla Divisione alpina Tridentina ebbero 3.000 morti, feriti o catturati. Ai quali vanno aggiunti a tutti gli altri coinvolti nella grande ritirata.

Chi ha frequentato l’associazione paracadutisti ha acquisito la storia della fine della Divisione Folgore che non avvenne nei lembi di deserto che aveva avuto l’ordine di difendere, bensì durante il successivo ripiegamento da El Alamein (che per essa iniziò alle 2 di notte del 3 novembre 1942), durante il quale i decimati reparti di paracadutisti, senza autocarri, privi di tutto, acqua compresa (riservata solo alla retroguardia combattente in ragione di mezzo litro per uomo), marciarono nel deserto a piedi, trasportando a braccia i loro pezzi anticarro superstiti e le poche mitragliatrici. Alle 2 del pomeriggio seguente i sopravvissuti erano già accerchiati e gli inglesi offrivano la resa. I paracadutisti risposero con il grido “FOLGORE!” ed aprirono il fuoco mettendoli in fuga. Dopo due giorni di marcia nel deserto, alle 14:35 del 6 novembre, dopo aver rintuzzato tutti gli attacchi nemici, esaurite tutte le munizioni e distrutte le armi, gli ultimi superstiti del 187° reggimento si arresero, ma non vollero mostrare bandiera bianca né alzare le mani al nemico. Passarono in riga con l’onore delle armi, sui 5000 effettivi dell’organico iniziale ad El Alamein, nei ranghi, in piedi vi erano 32 ufficiali e 272 paracadutisti. Di storie analoghe a queste sono piene tutte le altre associazioni d’arma.

Diceva Friedrich Dürrenmatt: «Patria è lo Stato se sta per compiere assassini di massa», mentre Samuel Johnson sosteneva che la patria è: «l’ultimo rifugio delle canaglie». A questo ambiente associazionistico è imposto di non parlar di politica; quindi non si affronta alcuna analisi su quei guerrafondai che furono i Savoia. Neppure si analizza quanto scriveva un noto intellettuale al servizio della Repubblica (siamo in epoca delle Città-Stato, ovvero di quella che fu la “civiltà comunale”), al Duca di Milano nel 1438: «La nostra Repubblica non è governata né da alcuni cittadini, né dagli aristocratici, ma tutto il popolo è ammesso con uguale diritto alle cariche pubbliche; questo fa sì che i cittadini grandi e i cittadini semplici, i nobili e i non nobili siano uniti nel servire la libertà e per difenderla non cercano di evitare le spese, né temono le fatiche.» E, ça va sans dire, come non ricordare che circa due secoli e mezzo dopo, tra i coloni americani e la madre-patria (GB) si sarebbe prodotto un analogo conflitto politico-culturale?

In questo “brodo di cultura” sorprende e stupisce la “schizophreneia” dell’associazione bersaglieri di Vicenza che ogni anno onora, eleonoronegricon il deposito d’una corona d’alloro presso la casa natia Il Maggiore Pier Eleonoro Negri. Questo dopo oltre 150 anni, e dopo che si è scoperto che non erano “leggende” i racconti sulla strage condotta a Pontelandolfo e Casdalduni, 5000 mila abitanti l’uno, 3000 l’altro, in provincia di Benevento. I bersaglieri ebbero libertà di stupro e di saccheggio, violentarono e uccisero sull’altare le donne che si erano rifugiate in chiesa; diedero fuoco ai paesi, con la gente nelle case. Non si è mai saputo con certezza quante centinaia di vittime (alcuni dicono oltre mille) si ebbero. Ancora oggi il macellaio che guidò la mattanza, il nobile vicentino Pier Eleonoro Negri, viene onorato ogni anno con la deposizione, da parte del sindaco, di una corona d’alloro, dinanzi alla lapide che lo ricorda. «Posso io assumermi la responsabilità di cancellare la prima medaglia d’ oro dei bersaglieri?», ha detto il sindaco Achille Variati (un ex democristiano, oggi esponente di spicco del partito democratico, e tuttora in carica) a Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che hanno dedicato tre pagine alla vicenda, nel settembre 2010, sul Corriere della Sera.

Ma a far venire i brividi è la frase riportata subito dopo dai due colleghi del Corsera: “Quanto all’associazione del corpo «piumato», il presidente vicentino Antonio Miotello ha detto al Giornale di Vicenza, che non se ne parla neanche: «Ci ho pensato alcuni giorni. Ma non credo ci si possa passar sopra: il massacro forse più efferato compiuto al Sud, dai bersaglieri, per rappresaglia, fu soltanto una legittima azione di guerra. Era in zona di guerra. Eseguì degli ordini»”. Antonio Miotello prestò servizio di leva nei bersaglieri come Sottotenente di complemento all’inizio degli anni 1960. È indubbiamente una brava persona; mai sfiorata dalla banalità del male. Probabilmente non ha nemmeno sentito parlare del saggio di Hannah Arendt: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil.

Anche il Gruppenführer Max Simon, della SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer SS” eseguiva gli ordini in zona i guerra la mattina del 12 agosto 1944, quando guidò l”eccidio di Sant’Anna di Stazzema, eseguendo fucilazioni di massa su civili, per un complesso di 560 morti, tra i quali 130 bambini.

Anche il maggiore Walter Reder, comandante del 16º reparto corazzato ricognitori della SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, stava eseguendo gli ordini in zona di guerra nel territorio dei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno in provincia di Bologna. Tra il 29 settembre – 5 ottobre 1944 causando 770 morti.

Pure il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante tedesco del fronte meridionale, stava eseguendo gli ordini in zona di guerra quando nominò capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell’ordine pubblico in città, all’ufficiale delle SS Herbert Kappler, già resosi protagonista della razzia del ghetto ebraico e della successiva deportazione, il 16 ottobre 1943, di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio. E stavano eseguendo gli ordini in zona di guerra gli ufficiali della sezione della Gestapo di Roma, diretta personalmente dal colonnello Kappler e dal suo aiutante principale, capitano Erich Priebke, quando materializzarono l’eccidio delle fosse ardeatine: 335 fucilati. Ma non abbiamo notizie che in Germania si dedichino onoranze a questi… esecutori di ordini.

A Norimberga, dal 20 novembre 1945 al 1º ottobre 1946 quelli che credevano di poter giustificare il massacro di propri simili dicendo di aver “soltanto eseguito ordini” furono giuridicamente contestati. Molti giuristi della difesa sostennero che le accuse previste nella Carta di Londra che presiedeva a quei processi «non avrebbero potuto essere contestate perché all’epoca in cui erano accaduti i fatti non esisteva una legge penale internazionale che li considerasse delitti. In altre parole, addebitando queste imputazioni in base a una norma retroattiva veniva violato il principio Nullum crimen, Nulla Poena Sine Lege Praevia che da secoli appartiene alla civiltà europea a tutela della libertà dell’individuo e che stabilisce che nessuno può essere punito per fatti che, quando vennero compiuti, non rappresentavano giuridicamente un reato né per essi era prevista una pena». Un approfondimento lo si trova qui: VEDI QUI.

A Norimberga per la prima volta fu dichiarato esplicitamente che «il preparare, provocare e condurre una guerra di aggressione, o cospirare con altri a tal fine, è un delitto contro la società internazionale, e che il perseguire, opprimere e fare violenza a individui o a minoranze, per motivi politici, razziali o religiosi connessi con tale guerra e sterminare. mettere in schiavitù e deportare le popolazioni civili, sono veri e propri delitti internazionali, e gli individui sono responsabili di tali delitti». Si stabilì: «Il fatto che un imputato abbia agito in ossequio a ordini del proprio governo o di un proprio superiore non libererà l’imputato medesimo dalla responsabilità penale, ma potrà costituire attenuante all’atto della comminazione delle pene che il tribunale riterrà di infliggere all’imputato medesimo». A partire dal 21 novembre 1945, si dimostrò che, sebbene la Carta di Londra rappresentasse la sola fonte autorevole di legge, il principio Nullum Crimen, Nulla Poena Sine Lege Praevia era stato rispettato, poiché le norme contenute nella Carta corrispondevano alle convinzioni generali di ciò che era giusto, per cui non era la legge penale ad essere nuova bensì la sua formulazione. Insomma gli ordini, quando chiaramente immorali, possono non essere eseguiti.

Sull’importanza delle forze armate aveva ragione Carlo Cattaneo, e per semplicità riportiamo quanto scrive Romano Bracalini nel suo libro dal titolo Cattaneo – Un federalista Per gli italiani: “Consapevole dell’importanza dell’esercito nella vita di ogni paese, decise di affrontare l’argomento militare. Infatti pur essendo la pace l’aspirazione di tutti, non c’era da farsi illusioni sulla cupidigia e sulla sete di dominio degli uomini. Per questo non era immaginabile una storia senza guerre. Riteneva che la scienza e la ricerca venissero stimolate dalla richiesta di armi e strumenti offensivi sempre nuovi: «spinti dalla necessità militare, i popoli si muovono sulla via del progresso. Guardate le nazioni che sono al centro del mondo. Chi non accetta la lotta si mette fuori della storia». Affermò però la necessità che la difesa venisse affidata al popolo e non a una minoranza che avrebbe potuto servirsi dell’esercito per fini di potere.

C’era un solo modo per evitare che i «signori della guerra» prendessero il sopravvento: la «nazione armata», sull’esempio della Svizzera, doveva sostituire i militari professionisti che diventavano classe privilegiata mentre il paese esauriva le risorse per mantenere una massa di fannulloni. Si opponeva anche alla coscrizione obbligatoria d’origine napoleonica e alla casta degli ufficiali di carriera, che poteva essere adoperata per imporre la volontà dei governanti contro il popolo disarmato, e al tempo stesso era insufficiente alla difesa perché lasciava senz’armi e senza addestramento un gran numero di giovani abili. L’esercito, non solo in Italia, era il pilastro della monarchia e sempre più spesso veniva impiegato per ristabilire l’ordine pubblico. A fine secolo, intervenendo contro le manifestazioni popolari, inaugurò la stagione delle repressioni di piazza e degli stati d’assedio. Ma il militarismo era un pericolo anche per le nazioni confinanti, mentre il sistema svizzero, al quale Cattaneo si ispirava, era una garanzia di difesa collettiva, senza minacce per nessuno. I cittadini erano obbligati a prestare il servizio militare ma potevano restare a casa e continuare a lavorare, salvo che per brevi periodi, evitando così l’inutile e noiosa vita di caserma. Il principio della nazione armata era la sua costante raccomandazione: «Per fare l’Italia armata, militi tutti, pretoriani nessuno».”

Oggi la casta dei governanti, non diversamente da ieri, continua ad usare i militari per ristabilire l’ordine pubblico; anche se in forme e con giustificazioni diverse. Ciò nonostante il rispetto che i politicanti hanno nei confronti dei militari non è commisurato alla loro disponibilità – anche – a morire per lo Stato italiano. L’odierna vicenda dei due marò del Reggimento San Marco “abbandonati” in India ne è l’esempio. Se a costoro può andare la nostra cristiana ed umana solidarietà, non per questo rimaniamo estranei e perplessi di fronte alle lacune culturali del mondo delle forze armate e del suo associazionismo. Rimaniamo attoniti di fronte a schiere di soldati costretti come scolaretti a cantare in coro un inno nazionale che invoca anche la morte per la salvaguardia di questo Stato. Ma poiché quest’ultimo, per il suo manifestarsi nei confronti dei propri cittadini, non ha alcun diritto morale d’essere difeso, a malincuore dobbiamo constatare come sembri adeguata la “paga del soldato” italiano lasciato solo a se stesso in balìa degli eventi.

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