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Una riforma dopo l’altra: l’inarrestabile mutamento di un sistema pensionistico fallito

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di ARTURO DOILO Il sistema pensionistico italiano, un tempo considerato stabile, oggi è più che logorato. Lavorare per raggiungere la pensione richiede quasi 43 anni, contro i 35 necessari fino ai primi anni ’90. Così promettevano a chi - obbligatoriamente - era costretto a versare i contributi allo Stato e all'INPS. Il susseguirsi di riforme ha dimostrato che il sistema retributivo è uno schema Ponzi e che un vero sistema a capitalizzazione individuale (alla cilena verrebbe da dire) non è mai stato introdotto. Ad ogni riforma, appoggiata da destra e sinistra, la situazione è solo peggiorata per chi vorrebbe costruirsi un futuro in proprio. Ecco cosa è accaduto negli ultimi 30 anni di cosiddetto "riformismo". 1-Riforma Amato (1992) Con il D.Lgs. 503/1992, la riforma Amato segnò una svolta: l’età pensionabile scese da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne, mentre il requisito minimo di contribuzione salì da 15 a 20 anni. Venne allargato il periodo retri
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