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Biffi tolomei e la salvaguardia della proprietà privata nel ‘700

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di PAOLO L. BERNARDINI

“Quando l’interesse individuale presente del proprietario, considerato isolato e spogliato di ogni riguardo per la società, coincide coll’interesse pubblico, si richiede non solo che sia lasciata al proprietario una libertà illimitata, ma che sia difesa dalla pubblica potestà da ogni attacco, che è sempre lesivo del pubblico e del privato egualmente. All’opposto quando l’interesse individuale presente non coincide con quello del pubblico, si richiede un regolamento; altrimenti le società non sussistono, o ne soffrono dei mali gravi”. Così scriveva, nel 1785-1786 Matteo Biffi Tolomei.

Giova riscoprirlo, nel vasto mare degli economisti settecenteschi, poiché Biffi Tolomei, grande proprietario terriero nel Mugello, scrive, in un secolo in cui il pensiero “italiano” liberale mostra di essere tanto vivo, da Giammaria Ortes a Ferdinando Galiani, quanto contraddittorio, dal punto di vista, appunto, del proprietario terriero, da un punto di vista “privato”, che cercherà sempre di conciliare, impresa quanto mai ardua, gli interessi privati, e del proprio ceto nobiliare e possidente, con quello del pubblico; in una Toscana grande laboratorio di riforme liberali – la “Libertà” per eccellenza era per Pietro Leopoldo e per Biffi Tolomei quella del commercio dei grani, come lo era un po’ in tutto il Settecento –almeno fino alla svolta reazionaria dei primi anni Novanta, in un’Europa scossa nelle fondamenta dalla Rivoluzione, con una Francia 1792 affamata e privata dell’importazione libera di grani dalla Toscana: cosa che forse accelerò, nel contesto di un rinnovato, micidiale protezionismo europeo, la grande crisi rivoluzionaria che porterà, purtroppo, al Terrore (e all’impoverimento delle nazioni esportatrici di grano verso la Francia stessa, o verso altrove, come ben vide lo stesso Biffi).

Dal punto di vista dello storico, non posso che lamentare l’assenza di un lavoro monografico su Biffi Tolomei, che in fondo la vecchia voce del vecchio storico marxista livornese Furio Diaz (1916-2011) nel “Dizionario biografico degli italiani”, del 1968, in fondo auspicava. I materiali, a stampa, ma soprattutto gli immensi fondi archivistici, a Firenze, a Fiesole, e probabilmente con lettere in molti altri archivi, offrirebbero ampio materiale per la ricostruzione del pensiero di un liberale italiano, con tutti i vizi, e le virtù, già allora, del liberalismo italiano, raramente radicale, raramente, e certo nel Settecento mai, avversario dello Stato in quanto concetto e meno che mai in quanto realtà.

Dal punto di vista teorico più generale, occorre chiedersi come mai alla difesa del libero commercio del grano, che fornì per un quarto di secolo – fino alla sua repentina, folle abolizione – grande ricchezza alla Toscana leopoldina, patria del resto di liberi commerci ben riassunti, come in un’epitome vera e propria, dal porto di Livorno, aperto al mondo e perfino alle Americhe, Biffi Tolomei non aggiunse una visione radicale del liberalismo da applicarsi ad ogni sfera della realtà economica. Avversò ad esempio la libera esportazione di manufatti, e fu un fiero avversario della liberalizzazione in materia forestale. Proprio i suoi scritti sugli (immensi, certo) danni provocati dalle leggi di liberalizzazione in materia di boschi, si deve la pallidissima fama recente di Biffi Tolomei. Nel 2004 è stato infatti ripubblicato un testo molto importante del Biffi, tratto da una delle sue opere tarde, del 1804, il “Saggio d’agricoltura pratica toscana e specialmente del contado fiorentino”: al testo è stato dato il titolo “Una tragedia ecologica del ‘700. Appennino toscano e sue vicende agrarie”, a cura di P. Zani, con uno scritto di Fabio Clauser. Clauser, che compie nel 2017 96 anni, grande veterano del corpo forestale italiano, uomo di immensa cultura agraria, boschiva, e non solo, non perde però occasione per attaccare il liberismo nel momento in cui si applica ai patrimoni boschivi, facendo una ricognizione storica dei danni apportati in Toscana al patrimonio forestale fino all’annessione della medesima Toscana, nel 1859, al futuro regno d’Italia.

I danni tuttavia causati al patrimonio forestale in tutto il mondo, ben aldilà della Toscana lorenese e poi italiana, da parte degli Stati, sono forse pari se non superiori a quelli apportati dai privati, e in questo senso giova sempre rileggere il libro di Novello Papapava “Proprietari di sé e della natura”, che porta come sottotitolo “Introduzione all’ecologia liberale”, pubblicato da Liberilibri nel 2004, in coincidenza tra l’altro con la pubblicazione del testo di Biffi. Perché tra fine Settecento e inizio Ottocento vi furono cotali devastazioni del patrimonio boschivo toscano, tali da far parlare appunto di “tragedia ecologica”? Certamente le leggi medicee – come quelle della Serenissima – proteggevano i boschi, ma in un certo senso gli stessi piccoli proprietari toscani erano impreparati ad una liberalizzazione che consentisse loro di tagliare o bruciare i boschi per creare pascoli, terreni arabili, o combustibile. Se la legge era liberale, non vi era – e non v’è – una educazione alla libertà. Che consenta soprattutto una cosa: di comprendere come il profitto immediato, ottenuto con devastazioni di patrimoni boschivi secolari (o di qualunque patrimonio), non consente poi di preservare ed aumentare nelle generazioni la ricchezza, quel che il vero liberale, e il vero amante della proprietà, auspica. Questo faceva orrore a Biffi Tolomei, che parla degli Appennini come l’Alpe toscana e veramente si turba per quelle devastazioni. In pagine molto belle, ove coniuga la bellezza del paesaggio con la sua produttività a lungo termine, in un’epoca ancora in cui non esisteva un turismo diffuso e un amore, come oggi, per gli splendidi casali toscani con appezzamenti di terreno, venduti a caro prezzo sul mercato immobiliare internazionale. Peraltro, nel 1772, a Venezia, era stato pubblicato un lavoro fondamentale, curato, e tradotto dall’edizione originale francese dall’abate Giulio Perini, un membro del patriziato fiorentino probabilmente in contatto col Biffi: “Del governo dei boschi ovvero mezzi di ritrar vantaggio dalle macchie, e da ogni genere di piante da taglio, e di dar loro una giusta stima” di Duhameldu Monceau, membro dell’Accademia francese delle Scienze: un libro che ebbe una notevole importanza anche in epoca rivoluzionaria.

Si tratta, tornando al discorso sull’educazione e sul buon uso della libertà, come si vede bene, di un problema cruciale nel contesto non solo del pensiero liberale italiano, ma del liberalismo tout court. Il cattivo uso della libertà distrugge prima il patrimonio del privato, limitato, che non quello dello Stato.

Certamente, nel Biffi Tolomei vi è l’esigenza di salvaguardare sempre la proprietà privata, sia dall’ingerenza dello Stato, sia da altre forme di appropriazione, ad esempio il furto ad opera di privati (contadini e braccianti) legittimati da qualche ideologia da “esproprio proletario” ante-litteram. Come ricorda Furio Diaz nella voce biografica citata: “Convinto assertore dell’iniziativa privata e delle misure idonee a proteggerla e incrementarla, nella gestione dei beni dell’Ordine di S. Stefano fu intransigente custode degli interessi della proprietà, come ci rivela un suo biglietto al capitano della piazza di Monte S. Savino, in data 17 luglio 1774, per impedire che i contadini delle terre dell’Ordine continuassero a «trafugare grani e biade prima della divisione».”

Soprattutto nel mondo agrario, sono coloro che effettivamente praticano l’agricoltura, a comprendere meglio, dall’interno, quali siano le politiche migliori per incrementare la produzione e il commercio dei frutti della terra. Siamo negli stessi territori di un Camillo Tarello (1513-1573), scrittore bresciano sotto la Serenissima, che rivoluzionò le pratiche agricole con i suoi, celeberrimi, “Ricordi di agricoltura”. Certamente, possono essere affascinati dalle teorie astratte dei fisiocrati – come lo fu il Tolomei – ed anche, come di nuovo fu il suo caso, credere, illudendosi, nella nuova amministrazione francese, che purtroppo non risollevò le sorti della Toscana lorenese, passata troppo rapidamente da amministrazioni illuminate ad amministrazioni eccessivamente reazionarie. Definirlo, come fa il Diaz, “progressista” sembra proprio eccessivo per un ricchissimo e nobile proprietario terriero del tempo.

Che attende ancora una doverosa rilettura, e riscoperta scientifica.

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