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Che palle con questi quattro sassi romani

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salva romadi GIANFRANCESCO RUGGERI

Giugno, ore due di un caldissimo pomeriggio e sono sperso in un sito archeologico, mentre una notissima e famosissima archeologa ci descrive con dovizia di particolari i resti romani di non so quale teatro. Il tempo passa e il sole picchia sempre più, nemmeno una pianta sotto cui ripararsi, ma dopo ben 45 minuti finalmente tace e penso di andarmene, quando inizia a parlare un suo collega. Non capisco più nulla e in fondo al gruppo sbotto: “che palle questi quattro sassi romani!” Senza che me ne accorgessi l’illustre archeologa si è messa proprio accanto a me, la guardo, mi guarda, stupefatta a bocca aperta non riesce ad emettere suono, sembra la Boldrini quando i grillini le assaltano il banco alla Camera. Abbasso gli occhi, la testa, le orecchie, abbasso tutto e me ne vado via prima che mi tiri uno di quei quattro sassi romani.

È un episodio realmente accadutomi qualche anno fa, riguardo al quale mi rendo conto di aver sbagliato i modi, i tempi, le forme, ma più passa il tempo, più mi convinco di aver pienamente ragione nel contenuto: che palle, questi quattro sassi romani! Mi accorgo sempre più che la nostra società è in preda ad un’ossessiva ossessione romanofila, così che un paese, un luogo meritano attenzione solo e soltanto se possono vantare qualcosa di romano, di presunto romano, di simili romano. La società in cui viviamo è ancora vittima dell’idea fascista che la civiltà sia stata portata dai romani e così tutto quello che è romano è degno di attenzione, se non di venerazione. La romano-mania è così forte, che se andate al supermercato trovate in vendita persino “Amore e sesso nell’antica Roma” di Alberto Angela: ma chissenefrega, veramente chissenefrega di come facevano l’amore i romani!

Casualmente pochi giorni orsono leggevo una banalissima guida turistica della bergamasca, dove si nota con facilità l’eccessiva attenzione al più insignificante elemento romano quasi non esista altro in grado di nobilitare un territorio: ad Azzano San Paolo si segnala la presenza di “laterizi romani”, in pratica pezzi di mattone, a Zanica si parla di “due speroni in ferro e di due fibbie in bronzo”, mentre a Comun Nuovo non c’è proprio nulla di romano, dato che il paese è stato fondato solo nel 1200: sarà per questo che la descrizione dedicata al paese è tra le più brevi del testo?

Il punto è un altro, chiediamoci se sono utili queste notizie. Servono a descrivere il territorio? Aiutano a capire i luoghi? Se voi foste sotto l’ombrellone al mare e il vostro vicino di sdraio vi chiedesse notizie sul luogo in cui vivete, gli rispondereste mai che nel vostro paese hanno trovato 4 mattoni o 2 speroni romani? Se malauguratamente foste di Comun Nuovo, dove di romano non c’è nulla neanche a cercarlo col lanternino, fareste scena muta?

Ebbene, se io abitassi nei tre paesi citati, direi che vi passa la Morla, rigorosamente al femminile, perché in Padania i corsi d’acqua che finiscono con la A sono femminili, con buona pace degli italici, che cercano di maschilizzarli tutti. Nessuno di voi saprà cos’è la Morla, nè chi abita nei tre paesi in questione si sognerebbe mai di farne menzione, perché non le dà alcun valore, dato che noi padani non abbiamo la minima conoscenza di noi stessi, della nostra storia, né del nostro territorio. La Morla è un corso d’acqua naturale, giunta a Bergamo piega a sud e con un alveo rettilineo e artificiale giunge fino a Comun Nuovo, dove si suddivide nei campi che irriga fino a perdersi e sparire. Lo storico Menant scrive che la Morla è la spina dorsale del sistema idraulico della media pianura bergamasca e proprio grazie ad essa è nato nel 1200 il paese di Comun Nuovo.

Ogni angolo di Padania ha la sua Morla, cercate attorno a casa vostra e troverete qualcosa di simile ed ogni Morla è un testimonianze del nostro ingegno e della nostra laboriosità. Pensate che la Morla ha un alveo artificiale lungo più di 10 Km, interamente scavato a mano, a pich e pala, dai nostri padanissimi antenati poco prima dell’anno 1000, nei cosiddetti “secoli bui”. Allora chiediamoci, sono più importanti due speroni giusto perché sono romani od un corso d’acqua naturale deviato dall’uomo con il suo alveo artificiale lungo più di 10 Km grazie al quale è nato un intero comune, grazie al quale hanno prosperato altri paesi ed ancora oggi si irrigano i campi? Ebbene come detto la Morla non è un caso isolato, tutti voi avete la vostra Morla più o meno grande che scorre vicino a casa vostra, perché tutta la Padania è stata costruita dal nostro lavoro, dalla nostra fatica e sopratutto dal nostro ingegno.

Carlo Cattaneo riassume perfettamente quanto sto dicendo quando scrive: noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; (…). Abbiamo preso le acque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri e le abbia­mo diffuse sulle àride lande. Questa è la verità, dove vi era palude abbiamo regolato le acque, dove il suolo era arido abbiamo portato l’irrigazione e con la nostra inventiva e perseveranza abbiamo creato una delle più grandi macchine idrauliche che esistano al mondo. Immagino che girando per la nostra terra non abbiate mai dato troppo peso ai canali e ai singoli fossatelli che vi capita di incontrare, che oggi distruggiamo, cementifichiamo e copriamo, ebbene quello che a voi sembra un’insignificante nullità è in realtà una minuscola porzione di un sistema idraulico immenso, senza il quale oggi la nostra terra semplicemente non esisterebbe.

Il Cattaneo ci insegna che gli elementi naturali originari erano come le parti di una vasta macchina agraria alla quale mancava solo un popolo che (…) ordinasse gli sparsi elementi; è quello che abbiamo fatto noi padani, non certo i romani che si sono limitati a centuriare la nostra terra. La tanto osannata centuriazione altro non è se non la suddivisione del territorio in maglie rettangolari da assegnare ai soldati per favorire la colonizzazione delle terre e badate bene che si sono limitati a centuriate le terre più fertili, non hanno costruito il territorio, se ne sono soltanto impadroniti. La centuriazione romana è l’equivalente degli Homestead act con cui gli statunitensi si sono spartiti le terre dei nativi, dopo averle divise in maglie rettangolari. C’è dell’ingegno in tutto ciò? C’è dell’onesto lavoro? Se la Padania è un immenso deposito di fatiche dipende da noi, non dai romani che ci hanno lasciato giusto due mattoni e quattro sassi.

Non solo abbiamo realizzato una macchina idraulica efficientissima, di più, abbiamo creato il bello nel vero senso della parola. Parlandovi del Grand Tour vi dicono sempre che gli stranieri valicavano le Alpi per visitare le città d’arte, Firenze, Roma, Napoli, ma vi nascondono sempre il fatto che superate le montagne quegli stessi stranieri restavano sbigottiti nel vedere quanto era bella la nostra terra e nei loro diari di viaggio si rinvengono facilmente entusiastiche descrizioni. Scrive Joseph Jérome de Lalande nel 1786 che “Cette plaine de Lombardie qui s’étend depuis Turin jusqu’à Rimini & Venise, sur une longueur de 90 lieues est la plus vaste, la plus délicieuse & l’une de plus fertiles qu’il y ait en Europe” e badate bene che la Lombardia di Lalande, che si estende da Torino a Rimini e a Venezia, altro non è che la Padania di oggi. Molti sono quelli che rimangono stupiti dall’abbondanza di acque “che irrigano, ma non inondano” (Edward Gibbon 1764), altri viaggiatori descrivono la nostra terra come un “giardino perpetuo” (François Deseine, 1699), grazie alla presenza delle marcite, riguardo alle quali il Cattaneo scrive che una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo. Altri autori si spingono oltre descrivendo la nostra terra come una sorta di giardino in festa e questa impressione è data loro dai tralci di vite maritata, che correndo di albero in albero danno l’impressione di essere “ghirlande” (Silhouette, 1770). E chi credete che abbia inventato questo modo di coltivare la vite che ha fatto bella la nostra terra? Non certo i romani, che arrivati in Padania l’hanno trovata ovunque e l’hanno solo ribattezzata arbustum gallicum!

Mentre tutti si sbrodolano con la romanità, quanti sanno che la nostra terra era internazionalmente considerata un’icona paesaggistica di valore mondiale, come oggi lo è la Toscana? Quanti di voi sono consci che molto abbiamo distrutto, ma che molto di quel bello rimane tutt’oggi? E quanti sono invece i nostri fratelli rimbambiti da una malsana idea di mediterraneità che li porta a riempire la nostra terra di sughere, ulivi, palme e cipressi cercando di scimmiottare le colline toscane o lidi ancor più lontani? Non conosciamo il valore paesaggistico della nostra terra, non comprendiamo che il cipresso è l’albero della romanità, non sappiamo che al suo posto si potrebbe piantare il pioppo cipressino, che è un’essenza tipica della Padania, dove questa specie è stata selezionata nel XVII secolo, tanto tipica da essere nota in inglese con il nome di Lombardy Poplar.

Chiudo prendendo di petto persino il simbolo stesso della romanità, il Colosseo. Certo è un monumento imponente, ammirevole, decisamente interessante, ma soprattutto celebrato ed osannato ad ogni piè sospinto. Ma veramente credete voi che costruire quel famoso anfiteatro abbia richiesto più ingegno e più fatica di quanto ne sia servito per deviare la sconosciuta Morla e scavarle un alveo artificiale di più di 10 km oltre alla relativa rete di canali minori? Né va dimenticato che la Morla fin dai secoli bui ha nutrito generazioni e generazioni di padani, mentre il Colosseo era il luogo in cui i civilissimi romani si divertivano a far sbranare dai leoni donne e bambini. Anche prescindendo da queste considerazioni di ordine morale e pur con tutto il rispetto che è necessario avere per un tale monumento, è comunque necessario aver ben chiaro in mente che il Colosseo rappresenta solo un infimo granello di sabbia al confronto di ciò che noi abbiamo fatto e costruito nel corso dei secoli in Padania, dove i romani hanno lasciato giusto due speroni e quattro sassi!

Così quando pomposamente vi dicono che tutte le strade portano a Roma, rispondete loro orgogliosamente che tutti i canali scorrono in Padania! Padania libera, anche e soprattutto dalla nostra ignoranza per noi stessi.

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