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I sostenitori del libero scambio sono realisti! I protezionisti sono ideologizzati

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di PIETRO AGRIESTI

I sostenitori del libero scambio vengono spesso dipinti come teorici distaccati dalla realtà, intellettuali astratti privi di concretezza e senso pratico. Il dibattito sui dazi di Trump ha offerto vari esempi di questa narrazione. Per restare sul Miglio Verde si pensi ai begli articoli di Duncan Whitemore e Bryan Mercadante.

Ma è vero l’opposto: sono proprio i protezionisti a utilizzare un linguaggio astratto e ideologico che offusca la realtà e a propinare ricette che nel mondo reale non potranno funzionare.

Il linguaggio mistificatorio dei dazi

Quando i loro sostenitori affermano che con i dazi si “abbassano le tasse”, utilizzano una terminologia fuorviante. I dazi sono una tassa, e aggiungere una tassa è il contrario di abbassare le tasse. E anche qualora i dazi sostituissero altre imposte, si tratterebbe di una riforma fiscale, cioè di una rimodulazione della tassazione, non di una riduzione. Esiste un metodo più semplice per abbassare le tasse.. abbassare le tasse!

Chi vive sul pero? Le riforme fiscali sono storicamente una fregatura. Al di là della teoria economica, l’esperienza insegna una lezione brutalmente semplice: una volta introdotta, una tassa difficilmente se ne va.

Le riforme fiscali che promettono di sostituire un’imposta con un’altra raramente si risolvono in riduzioni sostanziali della pressione fiscale complessiva. Più spesso assistiamo al fenomeno opposto: la nuova tassa si aggiunge a quelle esistenti, o le sostituisce solo parzialmente, con il risultato netto di un aumento del carico tributario. Ed anche la burocrazia costruita per amministrare i dazi non sparirà magicamente una volta che altre tasse saranno ridotte. Al contrario, tenderà a perpetuarsi e a crescere, creando i propri interessi acquisiti e le proprie logiche espansive.

Come osservava Milton Friedman, “Non c’è nulla di più permanente di un provvedimento temporaneo”. La strada più breve per diminuire le tasse rimane quella più diretta: diminuire direttamente le tasse, invece di impelagarsi in complesse operazioni di sostituzione fiscale che nella pratica difficilmente hanno un lieto fine.

Il linguaggio collettivista del nazionalismo

Descrivere i dazi come se non fossero tasse non è l’unico esempio di linguaggio mistificatorio. Anzi. Quando i protezionisti parlano di commercio, tutto diventa un discorso su come una nazione debba essere autonoma nella produzione di questo o quello, sui deficit e surplus commerciali tra paesi. Utilizzano un linguaggio collettivista e nazionalistico che trasforma milioni di decisioni individuali concrete in astrazioni geopolitiche.

La realtà è questa: quando compro una Toyota o una Ford dal concessionario vicino casa, compio un atto concreto e personale, basato su ragionamenti, preferenze e situazioni individuali. Ma questa realtà viene dissolta in statistiche aggregate sui “deficit commerciali”, come se le nazioni fossero entità che commerciano tra loro, anziché una somma di individui che prendono decisioni.

E non solo: i protezionisti parlano di dazi in termini di vantaggi e svantaggi tra stati e tra nazioni, offuscando il fatto che uno scambio volontario avviene perché le parti lo ritengono mutuamente vantaggioso. Se fra tutte le cose che posso fare decido di comprare una Toyota, piuttosto che una Ford, è perché evidentemente ho valutato questa scelta preferibile rispetto alle alternative. Potevo non comprarla e l’ho comprata: si vede che ho pensato mi convenisse. Ma per i protezionisti il vantaggio delle parti coinvolte non conta, nei loro ragionamenti c’è spazio solo per stati e nazioni.

Quello che propongono è di entrare ancora di più nelle nostre scelte personali, di sovrascrivere la miriade delle nostre ragioni, dei nostri piani e delle nostre preferenze individuali con le loro, nel nome della ragion di stato, del bene comune e della grandezza nazionale.

Chi difende il libero scambio parte proprio da questa realtà concreta – le scelte individuali, i prezzi reali, i costi effettivi – mentre chi lo critica si rifugia in categorie astratte come “interesse nazionale” o “bilancia commerciale” che oscurano ciò che realmente accade: persone che comprano e vendono per i propri sacrosanti motivi personali.

L’inganno della reciprocità

Tra i protezionisti esiste anche la strana categoria dei protezionisti per il libero scambio. Come cercano di tenere insieme i due opposti? Sostengono che adottando un meccanismo che parifichi i dazi di un paese a quelli che gli altri paesi hanno verso di lui si creerà una sorta di equità e alla fine per evitare questi dazi gli altri paesi abbasseranno i propri.

Questa teoria sulla reciprocità ha forse una logica apparente e un qualche appeal sul piano astratto, ma sul piano concreto è una fregatura. Tralasciamo il fatto che nel caso specifico la formula proposta da Trump per calcolare i dazi “di reciprocità” è priva di senso compiuto e che quindi chiamarli così è ingannevole, ma se una tariffa uguale e contraria a un’altra potesse in qualche modo livellare il campo di gioco e ristabilire un gioco onesto, questo genererebbe il paradosso per cui il massimo di protezioni reciproche equivarrebbe a una condizione di libero scambio. Sul piano concreto, ogni dazio è un ostacolo che si aggiunge agli altri e peggiora la situazione complessiva.

Se da un lato le aziende vedono le loro esportazioni penalizzate da tariffe e barriere altrui, dall’altro consumatori e aziende si vedono tassati quando acquistano all’estero: che queste due cose si annullino a vicenda e si trasformino da due negativi in un positivo è pura credenza irrazionale.

La logica progressista di Trump

Questo modo di ragionare è tipico di una logica che Trump dovrebbe disprezzare: quella progressista. Un concetto chiave di “Come essere antirazzisti” di Ibram X. Kendi (uno degli autori progressisti più di grido negli ultimi anni) è proprio questo: una discriminazione può essere cancellata solo da un’altra discriminazione uguale e contraria, la seconda corregge la prima e giustizia ed equità son ristabilite.

La logica della reciprocità dei dazi è molto simile: se un paese discrimina gli esportatori americani, gli Stati Uniti dovrebbero discriminare gli esportatori stranieri. Queste due discriminazioni – che penalizzano insieme agli esportatori stranieri gli importatori autoctoni – dovrebbero teoricamente annullarsi. Solo che in realtà, il risultato è che i cittadini di entrambi i paesi ci rimettono, sia come esportatori che come importatori, sia come lavoratori che come consumatori. E ancora un altro aspetto che accomuna i due discorsi e li invalida entrambi: condividono lo stesso errore collettivista e trattano gli individui come unità intercambiabili all’interno di categorie astratte.

In entrambi i casi, l’individuo concreto con le sue ragioni e responsabilità specifiche scompare, sostituito da rapporti astratti tra collettivi. È proprio questo approccio collettivista che rende illusoria l’idea della reciprocità. Quando si ragiona per ‘paesi’ che si scambiano ‘colpi’ uno con l’altro, si dimentica che ogni dazio colpisce concretamente milioni di consumatori e imprese specifiche, ognuna con situazioni diverse.

Il dazio ‘di reciprocità’ non compensa l’esportatore A penalizzato all’estero tassando l’importatore B che compra dall’estero, sono persone diverse, con interessi diversi, non sovrapponibili e non intercambiabili. L’astrazione collettivista maschera il fatto che si stanno semplicemente moltiplicando i danni individuali. È lo stesso errore che commette Kendi quando ritiene che si possa annullare la discriminazione partita dai neri in passato, discriminando i bianchi di oggi e risarcendo i neri di oggi. Il risultato è che:

  • il bianco di oggi che non ha mai discriminato nessuno deve subire una discriminazione negativa che non merita;
  • il nero di oggi che non ha mai subito discriminazione storica deve ricevere una discriminazione positiva che non merita.

I ragionamenti come quelli di Kendi hanno una parvenza di correttezza finché non si aprono le categorie astratte, ideologiche e collettiviste che usano e non si vanno a vedere gli individui che ci sono dentro e le loro storie personali, allora ci si rende conto che ragionare in questo modo non vorrebbe affatto dire risarcire chi ha subìto un torto in passato, ma commettere milioni di nuove ingiustizie. Esattamente come i ragionamenti dei nazionalisti.

Ma fa specie che Trump, teoricamente l’anti-progressista per eccellenza, segua la stessa “logica” dei progressisti.. che resta demenziale chiunque la adotti.

Se i dazi fossero come vogliono venderceli

Se i dazi fossero una buona scelta, che permettesse di abbassare le tasse o di redistribuirle in un modo migliore (?), o se permettessero di gestire rischi sistemici, di reindustrializzare un paese, di migliorare le condizioni dei lavoratori, di limitare l’iper finanziarizzazione dell’economia, o avessero altre conseguenze positive e desiderabili, dovrebbero essere permanenti e non momentanei, non dovrebbero essere usati come strumento di contrattazione con gli altri paesi, né tolti se gli altri li tolgono, non ci dovrebbe essere alcun discorso di reciprocità.

La stessa razionalità che li rende positivi per gli americani, li renderebbe tali per tutti gli altri. Se sono tanto buoni, sarebbe logico e giusto che li adottassero tutti! Non si può tesserne le lodi e intanto chiedano agli altri di eliminarli.

La guerra commerciale come alternativa alla guerra militare

Tra la miriade di giustificazioni addotte dai protezionisti odierni ce n’è una quanto mai bislacca: la guerra commerciale sarebbe un’alternativa alla guerra militare. Meglio scontrarsi su questo piano che in una vera guerra, dicono. Ma questa “alternativa” non esiste in natura, è un falso dilemma postulato dai nazionalisti per i loro comodi. È un’affermazione ideologica che diventa reale solo se prendono il potere collettivisti nazionalisti dallo spirito bellicoso che ragionano in termini di scontro, potenza, forza, grandezza e primazia nazionale.

In realtà è un falso dilemma: primo, si può tranquillamente evitare sia la guerra commerciale che quella militare. Secondo, guerre commerciali e militari non sono alternative ma contigue – una non sostituisce l’altra, spesso la prima prepara la seconda. Nel mondo reale, una guerra commerciale porta più facilmente a una escalation o a una de-escalation?

La storia è inequivocabile: le guerre commerciali tendono a produrre ritorsioni, peggiorare i rapporti tra stati, fomentare nazionalismi e creare le condizioni perché dal piano commerciale la rivalità tracimi su altri piani. Gli anni ’30 offrono un esempio drammatico: la guerra commerciale iniziata con il “Smoot-Hawley Tariff Act” non “sostituì” i conflitti militari – ma fu un contributo a creare le tensioni e la crisi economica globale che sfociarono nella Seconda Guerra Mondiale. È invece un mantra liberale – attribuibile a Bastiat? – che “dove non passano le merci passano i cannoni”.

Non è retorica: il libero scambio è mutuamente vantaggioso e crea interdipendenze che rendono la guerra costosa per tutti, e i dazi non creano “pace attraverso la forza economica”, ma le condizioni per conflitti futuri. I protezionisti creano un falso dilemma e poi dicono di risolverlo.

Il mito della reindustrializzazione

I sostenitori dei dazi dipingono uno scenario seducente: le tariffe come strumento per reindustrializzare il paese, ricostruire una robusta classe operaia manifatturiera e liberare l’America dalla dipendenza economica dall’estero.

Secondo questa narrazione, finanza e servizi hanno cannibalizzato l’industria reale, che è stata delocalizzata oltreconfine, lasciando il paese vulnerabile e dipendente da fornitori stranieri potenzialmente ostili. Ci sono vari problemi con questo racconto:

  • afferma come un dato di fatto auto-evidente che la dipendenza da fornitori esteri sia peggio di quella da produttori locali, ma non è scontato sia così;
  • afferma che sia lo Stato a dover valutare i rischi e a dover agire per mitigarli, ma è vero il contrario;
  • ritiene i dazi un mezzo efficace per reindustrializzare il paese, quando invece sono destinati a fallire questo obiettivo.

La lezione storica della diversificazione

La dipendenza da fornitori esteri è davvero intrinsecamente più rischiosa della dipendenza da fornitori domestici? L’estensione del commercio globale rappresenta uno dei meccanismi più efficaci per ridurre il rischio sistemico attraverso la diversificazione geografica della produzione.

Quando le attività produttive sono distribuite su scala globale, la probabilità che eventi avversi colpiscano simultaneamente tutte le aree è molto minore. È infinitamente più probabile che un disastro – naturale, economico o politico – colpisca una singola regione piuttosto che l’intero pianeta contemporaneamente.

Si pensi alla storia delle carestie. Prima dell’era del libero scambio, le popolazioni erano vulnerabili a ogni fallimento del raccolto locale: una siccità, una malattia delle piante, un’invasione di locuste potevano significare la morte per fame. L’apertura delle rotte commerciali ha permesso di compensare le carenze locali con eccedenze prodotte altrove, stabilizzando l’approvvigionamento alimentare globale.

Questo miglioramento non è casuale ma statisticamente inevitabile: è infinitamente più probabile che la produzione fallisca in una singola regione piuttosto che contemporaneamente in tutto il mondo. I disastri naturali – siccità, inondazioni, terremoti, epidemie vegetali – colpiscono aree geografiche limitate. Mentre una siccità devasta il Midwest americano, l’Argentina può avere raccolti abbondanti; mentre le inondazioni colpiscono il Bangladesh, l’India può esportare riso. La diversificazione geografica non elimina i rischi, ma li distribuisce in modo che il fallimento di un fornitore venga compensato dalla disponibilità di altri.

Il principio vale per ogni settore: dalle materie prime ai semiconduttori, dai farmaci ai macchinari. Concentrare la produzione in un’area geografica limitata – anche se “nazionale” – espone a tutti i rischi locali senza beneficiare della compensazione globale.

Il motivo vero e concreto per cui i protezionisti nazionalisti prediligono i “produttori locali” è perché sono nella loro giurisdizione politica, cioè alla loro mercé.

I mercati come sistemi di gestione del rischio

Il mercato funziona come una rete di sensori che rileva e risponde ai rischi in tempo reale. Ogni prezzo contiene informazioni sui rischi: se un fornitore è poco affidabile, i suoi clienti chiederanno sconti o garanzie aggiuntive; se una regione è geopoliticamente instabile, i costi di approvvigionamento da quella zona aumenteranno; se una materia prima scarseggia, il suo prezzo sale incentivando risparmio e ricerca di alternative.

Il mercato è un sistema di gestione del rischio distribuito. A differenza di un piano centralizzato, dove un’autorità deve identificare tutti i rischi possibili e decidere come affrontarli, il mercato distribuisce questa funzione tra milioni di attori. Ogni imprenditore, manager, investitore diventa un “sensore” che valuta i rischi nel suo ambito specifico e prende decisioni di conseguenza. Nessuno ha bisogno di conoscere tutti i rischi dell’economia – ognuno si specializza sui rischi che conosce meglio. Il risultato è un adattamento continuo. Se esistesse una reale vulnerabilità strategica nell’affidarsi a fornitori stranieri, questa si rifletterebbe nei prezzi e nei contratti, creando automaticamente incentivi per la diversificazione geografica, lo sviluppo di fornitori alternativi e l’accumulo di scorte strategiche dove economicamente giustificato.

E qui già immagino i critici del libero scambio saltare sulla sedia ed esclamare: “Ecco l’intellettuale astratto, privo di senso della realtà. Quel che dici potrebbe essere vero in un mondo ideale, ma nella realtà il sistema dei prezzi funziona in tutt’altro modo, non riflette affatto quello che dici, ed è distorto da ogni sorta di intervento politico. Dazi, prezzi calmierati, incentivi, tassazione, sussidi, regolamentazioni, spesa pubblica, etc… alterano i prezzi e la loro capacità di riflettere correttamente e onestamente i rischi”.

Hanno ragione: tutti gli interventi statali distorcono il sistema di prezzi e quindi compromettono la capacità del mercato di gestire i rischi in modo efficiente. I dazi, i sussidi, i prezzi calmierati e tutto il resto, creano segnali falsi che portano a decisioni sbagliate. Ma il punto è che più interventi statali si aggiungono, meno il sistema funziona. I dazi non “correggono” le distorsioni esistenti – ne aggiungono di nuove.

La logica del libero scambio non è che i mercati esistenti siano perfetti, ma che ogni nuovo intervento li rende peggiori. Se il mercato dell’energia è già distorto da sussidi alle rinnovabili, aggiungere tariffe sui pannelli solari cinesi crea una doppia distorsione che rende ancora più difficile capire quali tecnologie siano davvero competitive. Il ragionamento corretto non è “i mercati sono perfetti quindi funzionano”, ma “ogni passo verso mercati più liberi migliora il funzionamento del sistema di gestione dei rischi”.

Non è una visione astratta e idealistica, è una descrizione fattuale. Chi sostiene i dazi come forma di gestione del rischio di dipendenza da fornitori stranieri, sta imponendo la sua valutazione del rischio su quella altrui e sta avocando la centralizzazione allo Stato della soluzione.

Invece di lasciare che ogni attore valuti e prenda le sue contromisure, impongono una valutazione politica uniforme del rischio (tutti i fornitori stranieri sono “pericolosi”) e una risposta uniforme (tariffe). La valutazione dei rischi e la loro gestione non dovrebbe essere centralizzata, non dovrebbe essere politica, non dovrebbe essere democratica, dovrebbe solo e semplicemente essere lasciata al mercato.

Il sabotaggio della competitività industriale e la classe media

I dazi di Trump colpiscono massicciamente materie prime e componentistica – acciaio, alluminio, terre rare, componenti elettronici, prodotti chimici industriali – creando il paradosso per cui mentre si dice di voler proteggere l’industria americana, si aumentano artificialmente i costi dei suoi input principali. Come si rifletteranno questi aumenti sul resto dell’economia? Costretti a pagare di più per alcuni beni, gli americani spenderanno meno per altri, e il conto lo pagheranno altre industrie, altri settori e altri lavoratori. I lavoratori, la classe media, gli operai e i ceti più deboli saranno ulteriormente penalizzati dai dazi. Non sono un viatico per la loro ricostruzione, ma un ulteriore ostacolo.

Se è vero che dietro le delocalizzazioni ci sono dei costi umani, operai disoccupati, lavoratori che non riescono a riconvertirsi, persone e comunità che vanno a ramengo.. allora è altrettanto vero che ci sono dei costi umani dietro ai dazi, alle imprese messe fuori mercato, ai lavoratori lasciati a casa per questo e alle loro comunità.

Basta con questa retorica per cui le teorie sul mercato sono astrazioni che non considerano le persone reali e i costi umani dei fallimenti e della disoccupazione. Sono baggianate che racconta chi non le conosce e non le capisce: il libero mercato è il contesto in cui questi costi sono minimizzati, mentre lo statalismo è solo vettore di maggiori miserie.

Le vere cause della finanziarizzazione

È sicuramente vero che c’è stata un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, ma come sostengono gli economisti della scuola austriaca, le cause sono le politiche monetarie espansive, i debiti pubblici crescenti e i salvataggi bancari.

Quando le banche centrali mantengono artificialmente bassi i tassi d’interesse, gli investimenti si spostano verso attività speculative piuttosto che produttive. Il debito pubblico crea un circolo vizioso tra stato e settore finanziario, mentre i salvataggi bancari distorcono l’intera struttura dei prezzi. Come si è comportato Trump su questi fronti? Ha chiesto tassi bassi e aumentato spesa e debito pubblico. Il suo ultimo bilancio ad esempio prevede di aumentare il deficit di tre trilioni di dollari nei prossimi dieci anni (il che lo ha portato alla rottura con Musk, ndr).

I dazi non possono invertire le tendenze create da queste politiche macro. Trump vuole fare qualcosa di vero per combattere la finanziarizzazione? Chiuda la Fed, ascoltando Ron Paul.

Un approccio ideologico, collettivista e statalista

Se Trump vuole aiutare le imprese americane può concentrarsi sull’abbassare le tasse e sburocratizzare, come in parte sta facendo.

Se vuole abbassare le tasse, non ha bisogno dei dazi, può abbassarle direttamente. Se le abbassa e contemporaneamente prevede più spesa pubblica, la riduzione delle tasse ha come minimo basi labili. Se vuole ridurle davvero deve tagliare fortemente la spesa.

Se vuole combattere la finanziarizzazione deve diminuire il debito, anziché finanziare l’abbassamento delle tasse con nuovo debito. E non deve chiedere alla Fed di abbassare i tassi.

Se vuole combattere il progressismo deve smettere di ragionare da progressista. Purtroppo le politiche di Trump e in generale le politiche dei protezionisti sono piene di contraddizioni e destinate a non raggiungere gli obiettivi che si pongono. Scontano un approccio ideologico, collettivista e statalista.

Conclusioni

Chi è dunque che ragiona in modo astratto e ideologico? Chi adotta un linguaggio che offusca la realtà? Chi è privo di concretezza?

La risposta è evidente: non sono i sostenitori del libero scambio, che partono dalle scelte concrete degli individui e dai meccanismi reali del mercato, ma proprio coloro che li accusano di astrattezza teorica.

E per finire ecco l’ultimo esempio. Nel suo articolo, per molti versi profondo e interessante, forse il migliore che personalmente abbia letto a favore dei dazi, Bryan Mercadante, scrive che:

  • “Il caso astratto a favore del libero scambio è inconfutabile. Si basa sul principio del vantaggio comparato, articolato per la prima volta da Ricardo.” Ma “La spiegazione economica non conta”, perché “il mondo non è organizzato secondo la logica economica” e “i modelli [economici] hanno lasciato fuori qualcosa: le persone non sono fattori di produzione. Non sono infinitamente mobili. Quando le acciaierie chiudono a Sheffield, i disoccupati non migrano a Shanghai. Vanno in crisi. Bevono. Decadono. Le loro comunità marciscono intorno a loro”.

Ma c’è un punto fondamentale che gli sfugge: la critica che gli austro-libertari muovono ai dazi, al protezionismo, al nazionalismo e al loro linguaggio collettivista e ideologico non è soltanto un caso economico, una valutazione tecnica su costi e benefici. Per me questo aspetto è persino secondario. Riguarda il dirsi la verità, il rispetto per sé stessi, il fondare le relazioni tra individui sul consenso e non sulla coercizione, l’avversione per l’intromissione dei politici e dei burocrati nelle nostre vite con la loro infinita produzione di menzogne.

La scuola austriaca di economia – l’economia del buon senso – e il libertarismo sono il contrario di un’astrazione, non si basano sull’adozione di modelli astratti o su una visione idealista e irreale del mondo, ma proprio sulla stretta adesione alla realtà concreta. A partire dall’individuo, dal suo agire nel mondo e dal suo tessere relazioni con gli altri, e smontando i costrutti ideologici del pensiero collettivista e la falsa visione del mondo che ne deriva e che ci tiene prigionieri.

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