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Italiani: un popolo di conte e di palazzi

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di CARLO MELINA

Tre problemi. Uno: il Conte in me, in te e in noi, che, dal Monviso a Favignana, assistiamo all’offesa di un popolo senza denunciare, cioè senza ribellarci. Complici alla bisogna, nella misura in cui chi ci campa necessità della nostra complicità. Bene: ci meritiamo il calcio che abbiamo, finto come i capelli di Conte, la legislazione sulla tessera del tifoso, le telecronache dei giornalisti (che prendono la stecca da sponsor e procuratori in cambio di pagelle più accurate per questo o quel giocatore). Soprattutto ci meritiamo questo Stato, che, peraltro, manteniamo con versamenti puntuali (pochi mojiti, mi raccomando: il 15 agosto ricorre l’Assunzione di Maria e scade il termine per versamento dell’Iva del secondo trimestre).

Due, il Palazzi. Quello in sé, ovviamente, e quello tutt’attorno, che, imbracciando la scure giacobina della giustizia ad ogni costo, impone una verità più imperfetta di quella che propugnano bari, zingari e complici silenziosi. Verità prontamente smentita da una scure ancora più pura della sua. Come peraltro accaduto oggi, quando Palazzi, poste le richieste alla Commissione Disciplinare della Figc (4 mesi e 20 giorni di squalifica, tramutati in tre mesi più 200mila euro di molta per le due omesse denunce di Antonio Conte), ha ricevuto l’altolà della stessa Disciplinare: “tre mesi sono pochi”. Di squalifica, quanto di carcere (a proposito: 94 suicidi nelle gabbie italiane da gennaio 2012).

Tre: il commentatore. Scrive Pigi Battista sul Corriere che Conte non deve patteggiare: non va bene che “in un processo senza possibilità di difesa, insomma in una giustizia sportiva sbrigativa in cui l’accusa domina incontrastata, si possa scegliere il male minore, la riduzione del danno. L’immagine di Conte che patteggia danneggia anche l’immagine combattiva e irriducibile della Juve rinata dopo l’inferno di Calciopoli, costretta a scendere a patti per vedere ridotta una pena entro limiti accettabili. Così non vince la giustizia, ma il senso dell’opportunità, un compromesso al ribasso.” Commentatore ovviamente dimentico che da qualche annetto, facciamo 151, dal Monviso a Favignana la parola “giustizia” è stretto sinonimo della parola “merda”. Che di fronte a questo l’immagine di Conte non conta un cazzo. Che il suo emolumento deriva in parte anche dalle tasse di chi non la pensa esattamente come lui. Che il suo presidente della Repubblica ha mandato in Guatemala un giudice rompicoglioni perché lo aveva intercettato, salvo aver precedentemente sostenuto altri giudici, quando l’intercettazione riguardava il Cavaliere Duro e il suo giro di donne. A proposito di giustizia.

Zero soluzioni: quanto al calcio, a giorni riprenderanno i campionati. Le società meno capaci sconteranno qualche penalizzazione, il sangue dei pochi martiri bagnerà la polvere, i viziati riprenderanno a giocarsi le partite e i presidenti più ricchi a comprarsele nel finale di stagione (lo sapevate? Le schedine del Totocalcio le stampa Abete grafica, di proprietà di Giancarlo Abete, presidente della FIGC). Quanto a noi italiani, per cuore o per forza, nessuna novità. Ora complici, ora scandalizzati, un po’ Conte, un po’ Palazzi, tireremo avanti aspettando un altro lunedì, per poter sfottere, finalmente, il collega battuto nel derby venduto, giocato il giorno prima.

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