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Oggi, ancor più di ieri, sono orgogliosamente antipolitico!

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di LEONARDO FACCO

Dopo aver letto un articolo degno del peggior boiardo di Stato di vecchio stampo bulgaro contro l’Antipolitica” (il riferimento è a Carlo Stagnaro, un burocrate creatosi nell’Istituto Bruno Leoni, che ha occupato la sedia di capo di Gabinetto del ministro Calenda, intascando prebende pari a 170.000 euro all’anno), il mio disprezzo per i politici, e per la fauna di leccapiedi che li circondano, è andato alle stelle.

Oggi (nonostante la mia personale amicizia con Javier Milei), che chiudo con l’esperienza straordinaria del Movimento Libertario, sono ancor più antipolitico di prima, soprattutto quando vedo ominicchi e quaquaraqua del calibro del tizio di cui sopra abiurare a quei principi e a quei valori coerentemente liberali abbracciati e difesi a spada tratta per tanti anni (Qui un esempio).

Cosa significa essere antipolitici? Girovagando per dizionari, on line e non solo, ci si imbatte in diverse definizione dell’antipolitica. Forte della sua neutralità ed autorevolezza, Wikipedia riporta quanto segue: “Nel senso più comune il termine antipolitica definisce l’atteggiamento di coloro che si oppongono alla politica giudicandola pratica di potere e, quindi, ai partiti e agli esponenti politici ritenendoli, nell’immaginario collettivo, dediti a interessi personali e non al bene comune”.

Ora, se sul concetto di bene comune si potrebbe scrivere un saggio a parte, quell’immaginario collettivo a cui fa riferimento l’enciclopedia più cliccata del web non è poi così immaginario, considerato che le cronache quotidiane sono anni che riportano fatti e misfatti di quella che, giustamente, tutti conoscono col nome di casta. Dal 1992 – che possiamo considerare, per diversi motivi che non serve stare ad elencare, come una specie di frontiera temporale fra l’Italia della “Prima” e della cosiddetta “Seconda Repubblica” – è passato sotto i nostri occhi più che un trentennio di promesse di ogni genere. I liberisti han promesso la “rivoluzione liberale e meno tasse”, i comunisti e i democratici (nel 1989 sono paradossalmente rinati) han promesso “la moralizzazione della politica”, i leghisti han promesso “l’autodeterminazione dei popoli”, i “democristiani” han promesso “i governi dei moderati”. Risultato finale? I cittadini l’han sempre preso nel solito posto!

In oltre trent’anni di giuramenti, impegni e promissioni le conseguenze sono finalmente sotto gli occhi di tutti: crisi economica endemica, stagnazione, tassazione oltre ogni record mondiale, Stato di polizia tributaria per i contribuenti, servizi pubblici da paese in via di sottosviluppo, burocrazia bizantina (che alle imprese italiane costa decine di miliardi di euro), corruzione dilagante, classe politica sempre più arrogante, idiota e sfacciata, gerontocrazia imperante. E – non bastasse quanto sopra – tanta voglia di innescare una guerra, notoriamente salutare allo statalismo. “L’Italia è un paese per vecchi”, ebbe a titolare il “New York Times” anni addietro. Non mi pare solo una coincidenza che Giorgio Napolitano sia il Presidente emerito della Repubblica.

Andatevi a leggere una qualsiasi delle statistiche che riguardano il “Bel Paese”, siano esse redatte in casa o all’estero – e scoprirete che c’è da vergognarsi della classe dirigente italiana (alla Stagnaro per intenderci) e non solo di quella politica s’intende. Ma non è che i cittadini siano esenti da colpe.

Thomas Jefferson – Lockeiano e padre della rivoluzione americana – spiegava che “il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza”. In Italia, al contrario, anziché controllare s’è fatto a gara per questuare aiuti e prebende allo Stato (il reddito di cittadinanza promesso dai 5 stelle è l’ultimo degli esempi), e il questuare è il vero responsabile della povertà prossima ventura. Vi do un dato: L’Argentina è fallita per eccesso di statalismo diverse volte. Quando ha fatto crac – nel 2001 ad esempio – spendeva il 72% del suo Pil in spese correnti. L’Italia, oggi, ne spende il 60% circa!

Una volta c’erano i parrucconi. Insopportabili. Poi, è bastato che uno col parrucchino si elevasse di qualche centimetro su un predellino di un’auto blu per credere che la libertà fosse a portata di popolo. La “società civile” è mutata nella “società incivile”. E la gente comune, specialmente quella che sgobba da mattino a sera? Niente, è diminuita di numero e se le è bevute tutte, durante questi ultimi cinque lustri. Serve il maggioritario! E giù voti nelle urne. Serve l’uninominale! E giù voti nelle urne. Serve il federalismo fiscale! E giù voti nelle urne. Abbasseremo le tasse! E giù voti nelle urne. Garantiremo la sicurezza! E giù voti nelle urne. Servono giovani al governo! E giù voti nelle urne. “Avremo l’autonomia come Trento e Bolzano” e giù voti nelle urne, anche tra chi sapeva che erano solo promesse da marinaio.

A volte, quando penso al “cittadino-votante”, mi viene in mente il racconto “i sette piani” di Dino Buzzati. Più o meno faceva così: al settimo piano, al malato veniva assicurato che il suo non era un caso grave. Ma puntualmente veniva portato al piano sotto insieme a quelli che stavano peggio. Ad ogni rassicurazione dei medici (la casta), piano dopo piano la sua malattia si acutizzava. E’ morto al pianterreno il poverello. Cari lettori, ma a che piano siamo arrivati?

Io sono un libertario. Non voglio cambiare il mondo, tantomeno l’Italia, dalla quale ho ufficiosamente preso il largo. Non voglio fare il bene dell’umanità e ricordo sempre di diffidare da chi si propone di fare il vostro bene (ad esempio i politici, loro che sono gli artefici del dissesto di questo paese). Però voglio che l’Italia mi lasci in pace, anche l’Europa e il mondo se possibile. Voglio fare da me. Voglio essere libero di decidere, di scegliere, di sbagliare. Basta Stato e più mercato è lo slogan che mi piace. Voglio essere un vero “proprietario”.

Ancor più nel dettaglio, io sono un anarco-capitalista. “L’anarco-capitalismo è – per dirla con Francisco Capellal’autogoverno e rappresenta la difesa radicale e coerente dei diritti di proprietà, ergo della libertà. Anarco-capitalismo è un sistema policentrico di diritti con giurisdizioni concorrenti, è una forma di organizzazione sociale spontanea, autonoma, non coercitiva, il cui obbiettivo è la cooperazione. L’anarco-capitalismo non significa caos, disordine o barbarie, ma semplicemente l’assenza di monopolio statale”. L’anarchismo individuale e coerentemente liberale (libertarismo) implica l’abolizione di ogni forma di Stato in quanto inutile, dannoso e indesiderato. In un mondo anarco-capitalista non regna il disordine, ma ci sono le istituzioni, le leggi, le regole e le agenzie di sicurezza in concorrenza fra loro, forme di organizzazione scelte e non imposte con la violenza. Esso è immaginabile come una rete (Internet è il prototipo della società libertaria), una comunità distribuita, una struttura consensuale, non una gerarchia o una struttura piramidale.

Anarchia e mercato non sono in contraddizione; proprietà e Stato, invece, sono incompatibili. Mi sono occupato di libertà individuali per qualcosa come vent’anni, penso di averci capito qualcosa sull’importanza delle libertà individuali.

In conclusione: non è che l’antipolitica sia un’invenzione dei giorni nostri. Bruno Leoni, oltre cinquant’anni fa, si domandava: “Ma come è possibile che un cittadino voglia delegare le sue scelte ad un politico che dei mestieri degli altri conosce poco o nulla”? Mai domanda è stata tanto attuale, peccato che quelli che portano il suo nome, i parassiti li legittimano quotidianamente.

COMMENTO A LATERE: Trovo buffi quelli che vogliono mettersi sullo stesso piano dei libertari dicendo che “hanno idee politiche diverse”. I libertari, almeno nella mia interpretazione della parola, non hanno idee politiche. Hanno una coerente idea della libertà, che è incompatibile con la politica, come spiega il mio caro amico Giovanni Birindelli.

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