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Reddito universale, gli studi demenziali di chi lo sostiene

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di MATTEO CORSINI

Capita con una certa frequenza di leggere articoli in cui viene perorata la causa dell’istituzione di un reddito di base universale, ossia una sorta di reddito di cittadinanza che dovrebbe essere erogato a tutti quanti, a prescindere dal reddito di partenza. Per i poveri, costituirebbe una integrazione; per i non poveri, sostituirebbe le deduzioni e detrazioni dall’imponibile. In sostanza, continuerebbero a esserci consumatori netti e pagatori netti di tasse.
Il punto è che spesso i fautori di questi programmi si soffermano sull’aspetto monetario, un po’ come se fossero la versione solidaristica dei sostenitori della MMT. Ma, in ultima analisi, a essere (re)distribuite dovrebbero essere risorse reali.
A supporto sono citati studi accademici che dimostrerebbero, pensate un po’, che su “500 famiglie di reddito medio-basso“, una selezione casuale di 200 a cui inviareun pagamento cash di 500 dollari per 24 mesiavrebbero vistouna percentuale statisticamente significativa di miglioramento nella spesa alimentare” rispetto al campione di controllo rappresentato dalle altre 300 famiglie. E le 200 famiglie avrebbero anche avuto una situazione di minore stress psicologico. In sostanza, sarebbe stato scoperto (e la scoperta dell’acqua calda mi sembra rivoluzionaria in confronto) che chi riceveva 500 dollari al mese se la passava meglio di chi, con reddito ex ante analogo, non li riceveva.
Ma, giusto per non voler arrivare a conclusioni affrettate, occorrerebbe valutare gli effetti sull’offerta di lavoro e, per farlo, “occorrerebbe fare esperimenti di almeno 5-10 anni“. Come no? Tanto qualcuno paga il conto. E magari per scoprire che l’assegno mensile aumenta il salario di riserva, ossia il minimo che una persona richiede per lavorare.
Spero almeno che chi conduce questi studi non aspetti poi una chiamata dalla Svezia per andare a ritirare il Nobel per l’economia (cosa che, ahimè, potrebbe peraltro accadere)…

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