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Diego Valeri, un atto d’amore per la Padova scomparsa

Da leggere

di PAOLO L. BERNARDINI

Per comprendere quanto la libertà possa giovare alle terre dove abitiamo, siano esse sicule o lombarde, venete o liguri, occorre rileggersi quei classici che seppero renderle vive, che furono in grado, quasi magicamente, di far emergere l’essenza di vie, città, campagne, di restituire, per dir così, quei luoghi a se stessi e al loro destino. Come mio modesto messaggio eccovi un invito ad una rilettura.

Ecco, dunque, la Padova di Diego Valeri. “Città materna” uscì per la prima volta nel 1944, su carta di guerra. La prima edizione fu accompagnata da alcuni disegni del nuorese Bernardino Palazzi (1907-1986), pittore mal noto, o non noto quanto meriterebbe. Perché Valeri lo scelse? Forse perché Palazzi è pittore soprattutto di nudi, figure conturbanti, distese, attraenti, ma soprattutto così tanto femminili, come appunto la Padova “materna” di Valeri, dei primi amori, tra cui, soprattutto, la letteratura.

Nelle tristi circostanze della guerra, lo smilzo volume si configura come un atto d’amore per la Padova scomparsa. E per la madre, che in essa si identifica. Sono pagine quasi sospese, dove si incontrano le diverse anime di questa città splendida, enigmatica, lacerata da destini multipli, la seconda più antica università d’Italia, e il più grande interporto merci di terra d’Italia. E tra i maggiori d’Europa.

Basterebbe quest’incipit per rendere il volumetto un capolavoro: “C’è nei miei più lontani ricordi una città vasta e profonda, irta di muraglie e di torri massicce, bruna bruna sotto un candido cielo d’estate, carica di silenzio, di paure, e di una sua dolcezza triste, e, non so come, materna. Tutt’intorno, il mistero della campagna, la pianura infinita; donde arrivano le vecchie mendicanti scalze, i vitellini legati sul carretto, i cumuli traballanti di fieno”. Ed ecco che la descrizione della città avviene seguendo il mutare delle stagioni, l’esilio del poeta e il ritorno, mentre, sottilmente, si intuisce il dramma in atto: lo sparire, l’eclissarsi, nella bilancia economica della città, del mondo contadino a favore di quello industriale; del mondo antico a favore di quello nuovo di cui, nel 1944, vi è appena labilissima traccia. La Padova di “cemento armato”.  Padova legata ad un santo straniero, ma prima di tutto ai propri, a Santa Giustina che Valeri descrive mirabilmente; agli studenti stranieri che creano l’università, e poi da sempre la popolano; Padova attraversata da un Medioevo violento, dalla tirannide – ma fu poi davvero così terribile? – di Ezzelino; e poi soggiogata ad un dominio comunque straniero, che si presenta con tutta la sua inesorabile potenza (e violenza?), quello della Serenissima.

“Ma dir Padova non è come dire tutto il mondo?”. Così esagera e si commuove Valeri. E ci commuove. Padova che vive dei suoi portici, Padova assimilata ad un bove, ad un vitellone pigramente steso nella campagna, Padova come “meraviglioso palinsesto”, intuizione davvero geniale. Ma l’idea della Padova come vitello è favolosa: nello stesso passo Valeri parla dell’Italia come etimologicamente, pare, legata al “vitello” (una delle ipotesi più salde, filologicamente, di etimologia), “gran bove accucciato sulla morbida pianura”, il tetto del Salone come groppa, la “massa del Santo” “il testone turrito”. Metafora innocente? Forse no, se il richiamo è poi al “divino Virgilio”, “italiano del settentrione”, “italiano di Padania”. Non italiano di tutta l’Italia, appunto, come il nazionalista D’Annunzio guerrafondaio, e retore falsario, su cui si appunta l’attenzione scettica di un mite come Valeri. Il D’Annunzio che trasforma i platani di Pra’ della Valle in “olmi”, e le sue statue di pietra tenera in “marmi”.

Solo riflettendo sull’essenza di una terra, di una città, solo avendone ben chiare le assolute peculiarità, si potrebbe riflettere – se sarà il caso – sul tema che ci sta a cuore. “Ma questa nostra terra, non meriterebbe, anche, di essere libera?” “Ma queste nostre genti non meriterebbero, anche, di governarsi da sole?”. Bove, o “vecchia gallina padovana”, Padova vive in lacerazioni infinite, l’inchiostro scancellato dal palinsesto non è mai del tutto coperto da nuove scritture. Per questo, sommersa dalla tragedia di un paese nelle mani di lestofanti privi di astuzia, di dilettanti privi di ogni arte, Padova muore. Non è la sola, ovviamente. Per questo, però, Padova vive. Perché nessun avventizio potrà toglierle gli strati storici infiniti da cui è composta, nata sotto la leggenda (falsa, forse) di Antenore, e dunque contrapposta a Roma, culla dell’umanesimo e del rinascimento, ultimo soggiorno di Petrarca, sognata da Shakespeare, praticata dalla scienza e offuscata dall’ignoranza, tutto, parallelamente, come se l’università troppo spesso fosse percepita come un corpo estraneo.

La libertà è legata a doppio, triplo filo con la cultura. Che non è cosa astratta, ma viscerale, non è altro che il culto della terra. In ogni e in ogni forma, la sua coltivazione.

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