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La balla della “sostenibilità” per distruggere l’imprenditorialità

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di MATTEO CORSINI

Nell’ambito dell’approccio talebano dell’Unione europea alla “sostenibilità”, lo European Financial Reporting Advisory Group (EFRAG) ha approvato le bozze dei primi 12 standard che le società dovranno seguire per la rendicontazione non finanziaria.

Si tratterà, soprattutto per le PMI quotate, di un onere significativo. Al tempo stesso, sarà un’opportunità di business per una pletora di consulenti. Il tutto per rispondere a una esigenza creata politicamente. In sostanza, una quantità di risorse saranno distolte dal cercare il modo migliore per anticipare e soddisfare le esigenze dei consumatori al cercare di restare sul mercato nel modo in cui i decisori politici hanno imposto che si debba stare. In altri termini, i politici che hanno deciso tutto questo si sono sostituiti ai consumatori. Perché se veramente fosse una richiesta proveniente dai clienti, le imprese sarebbero arrivate autonomamente a questo tipo di rendicontazione e a tutto quanto precede la rendicontazione stessa.

Ossia la predisposizione di “piani di transizione per la mitigazione del cambiamento climatico”, con tanto di dimostrazione di come gli obiettivi di riduzione di emissioni di gas a effetto serra siano compatibili con l’Accordo di Parigi. Si chiede di quantificare effetti finanziari per cui, di fatto, tutte le imprese dovranno adottare una logica da assicuratore. E il fatto è che non solo dovranno occuparsi di loro stesse, ma anche dei loro fornitori.

Per non parlare del dovere di fornire informazioni sugli “impatti materiali che l’attività d’impresa, le operazioni poste in essere (che si traducono, principalmente, in prodotti e servizi) e, più in generale, l’organizzazione d’impresa stessa possono provocare su tutti quei lavoratori che operano lungo le catene del valore e che contribuiscono ad alimentarle.”

Lo stesso vale per gli “impatti di natura materiale che l’attività della società e i suoi specifici comportamenti hanno sulle cosiddette «comunità interessate», ovvero su tutte quelle persone (o gruppi di persone) che risiedono in un’area geografica prossima a quella in cui opera l’impresa.”

Alcuni passaggi sono addirittura ridicoli, quando si obbliga l’impresa a “illustrare, in particolare, in che maniera i processi aziendali sono in grado di individuare e di tener conto, nell’offerta di prodotti eservizi, degli interessi, delle esperienze e delle aspettative esplicitate dai clienti.” Alla faccia di tutti quelli che pensano che la costante generazione di profitti sia un indicatore sufficientemente efficace per dimostrare la soddisfazione dei clienti.

E che dire del “rendere edotti gli stakeholders circa i criteri di carattere sociale ed ambientale utilizzati nella selezione dei fornitori e le azioni messe in atto per supportare quelli più deboli, con l’intento di guidarli verso comportamenti improntati al rispetto dell’ambiente e del contesto sociale”? Le aziende dovrebbero adottare un approccio paternalista nei confronti dei fornitori?

Se tutto questo non fosse tremendamente vero (e costoso) si potrebbe ridere. Purtroppo a ridere saranno in pochi, temo.

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