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La scuola statale non funziona, ma loro vogliono più stato

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SCUOLA PUBBLICAdi MATTEO CORSINI

“Infatti in generale gli stati non sono né i migliori organizzatori di sistemi né i più esperti datori di lavoro. Sono lenti nelle risposte, rigidi nell’organizzazione, costosi (perché, tanto, “paga Pantalone”), reticenti nel valorizzare i meriti, deboli nel contrastare l’inefficienza, per timore di perdere consenso elettorale. E così la scuola è in crisi e scontenta tutti: genitori, studenti, imprese, ma anche gli insegnanti: una categoria professionale già nobile e grande, ridotta oggi ad una condizione impiegatizia. Questo non vuol dire che lo Stato debba ritirarsi dal ruolo di responsabile primario per l’istruzione dei cittadini. Anzi, è essenziale che lo eserciti meglio. In primo luogo deve dare gli indirizzi per le conoscenze e le competenze da perseguire e deve assumerne i costi per tutti gli studenti. Ma, soprattutto, lo Stato deve assumere il compito che finora ha trascurato: verificare i risultati di tutte le scuole, sia statali che paritarie”. Attilio Oliva è presidente della Associaziole TreeLLLe (dove LLL sta per Life Long Learning), il cui obiettivo, apprendo al sito, è il “miglioramento della qualità dell’education”.

Ho preso spunto da un articolo di Oliva, le parole di cui sopra son sue, per evidenziare alcuni tratti caratteristici di chi, basandosi su osservazioni giuste, arriva a conclusioni che non hanno logica, se non partendo da una posizione fondamentalmente statalista.

Secondo Oliva, “gli stati non sono né i migliori organizzatori di sistemi né i più esperti datori di lavoro. Sono lenti nelle risposte, rigidi nell’organizzazione, costosi (perché, tanto, “paga Pantalone”), reticenti nel valorizzare i meriti, deboli nel contrastare l’inefficienza, per timore di perdere consenso elettorale”. Fin qui c’è poco da rilevare. Mi limiterei ad aggiungere che non potrebbe neppure essere altrimenti. Dove non c’è concorrenza, dove non è necessario soddisfare i consumatori, dove il finanziamento è ottenuto coercitivamente, non potrebbe essere altrimenti. Né ha senso parlare di “meriti” o della tanto abusata “meritocrazia”.

Tanto più ci si allontana da un contesto di libero mercato, quanto meno ha senso parlare di merito. I profitti ottenuti in un contesto di libero mercato sono il miglior indicatore del merito, perché per realizzarli è necessario soddisfare le esigenze di chi liberamente sceglie di comprare un bene o un servizio.

La valutazione del merito di un dipendente pubblico è quindi inevitabilmente basata sull’idea di merito che viene stabilita a livello burocratico. Questo non significa essere “reticenti nel valorizzare i meriti”; semplicemente non ha un gran senso parlare di meriti in quel contesto. Ciò detto, se la scuola statale “scontenta tutti”, che conclusione ne trae Oliva? “Questo non vuol dire che lo Stato debba ritirarsi dal ruolo di responsabile primario per l’istruzione dei cittadini. Anzi, è essenziale che lo eserciti meglio”.

Parafrasando gli europeisti senza se e senza ma, secondo i quali ogni cosa che non funziona si risolve con “più Europa”, pare che la soluzione a una scuola statale che non funziona sia “più Stato”. Cosa induca Oliva a ritenere che ciò rappresenti una soluzione mi sfugge, né lui si preoccupa di spiegarlo. Semplicemente dà per scontato che dell’istruzione debba occuparsene lo Stato, quanto meno per sostenerne i costi e stabilire gli indirizzi. E non so quale delle due cose sia peggiore.

Credo però che quando si è di fronte a un fallimento che si trascina da decenni sarebbe quanto meno doveroso fornire un supporto a ciò che si dà per scontato e che invece non dovrebbe esserlo affatto. Ma si tratterebbe di supportare l’insupportabile. Che per me è anche insopportabile.

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1 COMMENT

  1. Teoricamente l’istruzione pubblica è utile, assicura un ricambio sociale e l’efficienza. Mi spiego: in un sistema perfetto se il figlio di un industriale è un incapace finirà a fare l’impiegato del catasto e il capace e dotato figlio di un operaio finirà a fare il primario di chirurgia. Questo permette un allocazione ottimale delle risorse umane. Vista la situazione italiana, con i più dotati e capaci che scappano all’estero ed il crollo continuo del PIl e della ricerca è evidente che questo non avviene. Infatti il sistema è tale che ormai si va avanti per ereditarietà, i medici sono figli di medici, gli avvocati figli di avvocati, i giornalisti figli di persone famose, i professori universitari figli di professori universitari. Praticamente una situazione sociale bloccata. E’ quasi impossibile partire da zero e crearsi una professione o avanzare.
    Il motivo, oltre al nepotismo da terzo mondo, tipico della mediterranea Italia è anche che il settore pubblico è stato utilizzato solo ed esclusivamente per sopperire alla disoccupazione meridionale. Un intero sistema indirizzato a questo scopo. Le scuole meridionali regalano alti voti e concedono scarsa preparazione, la cosa prosegue nelle università meridionali creando schiere di persone che cercano lavoro nel settore pubblico, occupandone ogni centimetro grazie ai voti regalati e ai concorsi truccati. Gli episodi di professori magnagreci proiettati in Padania, incapaci di parlare un italiano corretto e con scarsa preparazione non sono episodici.
    La soluzione, purtroppo, è privatizzare il tutto, insieme alla Sanità e alla previdenza Sociale. Sarebbero miliardi su miliardi di sprechi risparmiati, le scuole assumerebbero non per concorso pubblico ma per assunzione diretta privilegiando i più capaci. Non si farà mai: al di sotto della Linea Gustav fare tutte queste tre cose insieme vorrebbe dire creare milioni e milioni di disoccupati con diritto di voto che nessuno assumerà mai altrove.
    L’unica soluzione è l’indipendenza.

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