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Lao tze ha battuto machiavelli, senza gold standard la cina ha vinto

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CINA VINOdi GERARDO COCO

Famosi pezzi di cultura industriale come Pirelli in Italia, Acquascutum in Inghilterra, Volvo in Svezia, Peugeot Citroen e la casa di moda Sonya Rykiel in Francia sono diventati proprietà cinese. E’ la strategia del Dragone per acquisire smalto internazionale. Nulla di male sotto il profilo commerciale. Ma quando il compratore è la Cina la questione diventa geopolitica. Altri pezzi le saranno ceduti. Il trend di acquisizioni cinesi è irresistibile, dovunque.

Il che porta a chiederci: come è potuto accadere che nel corso di una sola generazione questo immenso paese abbia raggiunto una forza finanziaria che altri paesi come Inghilterra e Stati Uniti hanno conquistato in più di un secolo? Quale è stato il suo modello strategico di sviluppo? Non c’è stato nessun modello, nessun piano elaborato a cui uniformarsi. La Cina ha fatto leva sulla sola evoluzione delle cose sfruttando il potenziale insito nella situazione creata negli ultimi decenni dall’Occidente. Come dice l’antico maestro Lao Tze: «Lascia cadere l’effetto, non averlo di mira, non cercarlo ma raccoglilo, sappi trarre partito dagli sviluppi della situazione e lasciati portare da essa…».

L’effetto «raccolto» origina dal crollo dell’assetto monetario stabilito a Bretton Woods nel 1944 quando fu deciso di regolare gli scambi internazionali in base alla convertibilità del dollaro in oro e quella delle altre valute nel dollaro e quindi indirettamente in oro. Il fine era di creare quell’equilibrio nel commercio multilaterale che si basa su un semplice principio: il valore di un qualsiasi prodotto estero dipende dalla quantità di prodotto che la nazione compratrice deve dare in cambio per ottenere quello estero. In altre parole, il valore delle importazioni deve essere uguale a quello delle esportazioni e, in difetto, ogni differenza deve essere saldata in oro. D’altra parte, poiché anche per ottenere oro bisogna dare in cambio qualche altro prodotto si può affermare che, nel commercio, i prodotti si scambiano con i prodotti e indirettamente con la moneta.

Trascorso un ventennio, negli anni 60, a causa delle spese belliche sostenute per la guerra in Vietnam, il dollaro cominciò a svalutarsi e i paesi partner richiesero il pagamento delle loro esportazioni in oro. Gli Stati Uniti per evitare di perdere le riserve auree si rifiutarono e nel 1971 dichiararono il dollaro inconvertibile mantenendone però lo status di moneta di riserva che assicurava loro l’enorme vantaggio di pagare i debiti clonandolo. Il dollaro non più convertibile in una quantità fissa di oro, ma in titoli del debito pubblico diventava per ciò stesso uno strumento di debito inflazionabile. Si ruppe l’equilibrio assicurato dal gold standard: prima gli USA potevano acquistare caffè dal Brasile perché gli vendevano automobili o acquistare seta dalla Cina perché in cambio le fornivano macchinari. Ma una volta trasformato lo standard monetario in debito, lo scambio non rifletteva più rapporti tra quantità di prodotti di valore equivalente: la seta cinese invece di essere scambiata contro macchinari, veniva scambiata contro dollari sempre più svalutati.

220px-Goldkey_logo_removedLa Cina, invece di protestare, assecondò la frode perché aveva capito ciò che gli occidentali non hanno ancora afferrato e cioè che inflazionare senza limiti la moneta per pagare debiti disincentiva la produzione, facendo perdere capacità di acquisto e produttività a favore del paese venditore. Gli Stati Uniti cedevano quantità immense di dollari in cambio di altrettante quantità di prodotti dalla Cina senza che questa facesse però altrettanti acquisti. Siccome tutti gli altri paesi industrializzati per colmare i deficit commerciali inflazionavano le proprie valute allo stesso modo del dollaro, venivano pure loro invasi da prodotti cinesi a bassi prezzi in contropartita delle loro monete avariate. Attirati dal miraggio del loro boom da esportazione della Cina e degli altri paesi asiatici i paesi occidentali smantellavano gran parte delle loro industrie per trasferirle in quei paesi facilitandone l’industrializzazione. Il fenomeno di deindustrializzazione che invece ha colpito l’occidente è stato per diverso tempo mascherato dall’espansione monetaria che finanziava i consumi a scapito della produzione. Ma alla fine la stagnazione è emersa in tutti i settori chiave e la globalizzazione per l’occidente è diventata un incubo, sinonimo di destrutturazione e disoccupazione.

L’eliminazione del gold standard è stato il regalo strategico all’oriente e ha permesso alla Cina di svuotare l’industria occidentale come fa il ragno con la sua preda. Tutto ciò spiega il mistero dei global imbalances e l’enorme accumulo di riserve valutarie che ora la Cina sta usando per comprare o ricapitalizzare da azionista di riferimento la struttura industriale occidentale dopo averla impoverita. La Cina ha vinto la battaglia dello sviluppo senza clamore e senza combattere perché gli avversari si sono sottomessi da sé. «Fai in modo che quando il combattimento inizia, l’avversario risulti già sconfitto» dice un seguace di Lao Tze. Insomma, riuscire a vincere senza lottare è stato il capolavoro strategico cinese. Neppure Machiavelli era arrivato a tanto, lui che elogiava la capacità di intraprendere. Ma il pensiero cinese non ha abbracciato il culto dell’agire occidentale ma del far agire per gestire il potenziale della situazione. «Fare accadere, non imporre l’effetto» è stata la via cinese dell’efficacia strategica. Come siamo lontani dall’agire azzardato e dalla spettacolarizzazione occidentale dei «whatever it takes»! La nuova iniziativa, Asian Infrastructure Investment Bank, la piattaforma del renmimbi come valuta di riferimento mondiale per spodestare il dollaro negli scambi commerciali, si è imposta praticamente da sé senza dimostrazioni di prodezza. Da cosa sarà garantita la valuta cinese? Proprio da quell’oro che l’occidente ha ripudiato e cercato di svilire con manipolazioni monetarie spingendolo nelle mani dei cinesi. Ancora una volta il risultato era implicito nel potenziale della situazione che la Cina ha sfruttato «raccogliendo» l’effetto. L’Asian Infrastructure significa anche una vittoria di politica estera: fra poco potrebbe essere la Cina a dettare legge nella distribuzione dei poteri mondiali.

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