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Legge e mercato, la solitudine intellettuale dell’uomo che pensa

Da leggere

di GUGLIELMO PIOMBINI

Il vantaggio dello studio indipendente

Legge e mercato raccoglie, in forma riveduta e aggiornata, i migliori saggi e articoli scritti da Giovanni Birindelli tra il 2014 e il 2016. Sono sicuro che questo nuovo libro riceverà dai lettori lo stesso favore del precedente, La sovranità della Legge, perché le qualità che contrassegnano le riflessioni dell’autore sono le medesime: originalità, profondità, rigore logico, coerenza, chiarezza di esposizione.

Nel nostro paese le idee della filosofia libertaria e dell’economia austriaca circolano da una ventina d’anni, e sono state diffuse e sviluppate da un gruppo poco numeroso, ma di ottimo livello, di studiosi e scrittori. Giovanni Birindelli, al quale mi legano una profonda stima e amicizia, è apparso solo da pochi anni in questa comunità, ma ha bruciato le tappe e si è messo subito in evidenza per le sue capacità non comuni. L’autore di questo libro non è un accademico, ma uno studioso che ha seguito un percorso personale di studi, comprendente un Master in filosofia delle scienze sociali alla London School of Economics, grazie al quale ha potuto mettere a fuoco e poi approfondire liberamente i suoi interessi. I risultati di questa sua preparazione sembrano confermare le osservazioni di alcune personalità della cultura come Stefan Zweig o NassimTaleb sulla superiore creatività dello studioso indipendente.

«Per me – osservò il celebre scrittore austriaco – è rimasto sempre valido l’assioma di Emerson, che i buoni libri sostituiscono la migliore università, e che si può diventare un ottimo storico, filosofo o giurista senza aver mai frequentato l’università e nemmeno il liceo. Infinite volte nella vita pratica constatai che sovente gli antiquari se ne intendono di libri più che i professori, che i mercanti d’arte ne sanno più dei docenti, che una buona parte degli impulsi decisivi e delle scoperte, in tutti i campi, è venuta da studiosi isolati, non accademici. Il meccanismo universitario è certamente pratico, comodo, benefico per chi è mediocremente dotato, ma esso mi appare non indispensabile per le nature individualmente produttive, sulle quali anzi può agire come freno o inceppo» [Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, 1994, (1942) p. 87].

Più di recente anche NassimTaleb, molto noto per i suoi studi sulla probabilità e l’incertezza, ha dichiarato di essere molto scettico sull’insegnamento standardizzato. Una persona veramente erudita ha ben poco in comune con lo studente che ingoia interi libri di testo e le cui conoscenze si riducono al piano di studi scolastici. Il vantaggio della prima non risiede nel pacchetto di nozioni contenute nel programma ufficiale del corso, che tutti conoscono, ma esattamente in ciò che sta al di fuori: «Mi resi conto che la scuola era un complotto ideato per privare le persone dell’erudizione, circoscrivendone le conoscenze a un numero ristretto di autori … Infatti, io sono un autodidatta puro, nonostante mi sia laureato … Verso i tredici anni iniziai a tenere un registro delle mie ore di lettura, che andavano dalle trenta alle sessanta alla settimana, abitudine che ho conservato per parecchio tempo … Quando decisi di andare negli Stati Uniti, intorno ai diciotto anni, ripetei la maratona comprando qualche centinaia di libri in inglese … saltando la scuola e attenendomi alla disciplina delle trenta/sessanta ore settimanali di lettura … i testi che mi diedero da studiare a scuola li ho dimenticati, quelli che ho deciso di leggere per conto mio li ricordo ancora … Ancora oggi ho la sensazione che il tesoro, ciò che occorre sapere per svolgere una professione, si trovi per forza di cose al di fuori del corpus di conoscenze riconosciute, quanto più possibile lontano dal suo centro» [Nassim Nicholas Taleb,Antifragile. Prosperare nel disordine, Il Saggiatore, 2013 (2012), p. 265-269].

Libertario da sempre

Secondo Zweig e Taleb il vero scopo dell’istruzione statale obbligatoria è quello di creare cittadini omologati, irreggimentando i ragazzi e mortificando le loro personalità e capacità. Questa osservazione ci aiuta a comprendere il significato di alcuni episodi rivelatori dell’esperienza scolastica e universitaria dell’autore di questo libro. «Quando ero alle elementari – mi ha raccontato, con grande cortesia e disponibilità, Giovanni Birindelli – ricordo la mia antipatia per Mazzini e Garibaldi, nonostante la luce meravigliosa in cui venivano messi nel libro di testo, e la mia simpatia per Cavour. L’apprezzamento per quest’uomo politico era incoerente coi princìpi libertari ma ovviamente all’epoca non potevo comprenderlo. Quello che mi affascinava di Cavour era il fatto che fosse un imprenditore innovativo ed efficiente, o almeno così veniva rappresentato sul libro. Anche se contraddittoriamente, nella mia ammirazione per Cavour io esprimevo quella per il libero mercato e nella mia antipatia per Mazzini e Garibaldi quella per lo statalismo. Ma se dovessi dirti da dove venissero questa simpatia per il libero mercato e questa antipatia per lo statalismo non lo saprei dire. Direi che in qualche modo facevano già parte di me».

Il suo temperamento individualista emerse anche durante la scuola superiore: «Ricordo che durante la prima guerra del golfo (1990-1991) io ero al mio ultimo anno di liceo. La scuola fu occupata in opposizione alla guerra. Io, che non ero mai stato un “secchione” né un “cocco dei professori”, entrai e pretesi di fare lezione per esprimere la mia posizione a favore della guerra, cioè a favore del principio di non aggressione, dato che il Kuwait era stato aggredito dall’Iraq. Oggi, avendo strutturato il mio pensiero, avrei una reazione diversa ma all’epoca non avevo ancora gli strumenti per capire che il problema della guerra è lo stato moderno e per capire che esso non ha alcun titolo per combattere l’aggressione altrui in quanto esso stesso si fonda sull’aggressione. Quindi anche se teoricamente contraddittoria, leggo quella mia posizione come una delle numerose espressioni del mio nebuloso spirito libertario prima di essere entrato in contatto col liberalismo/libertarismo. Contro gli stessi professori, unico in tutta la scuola, riuscii a fare lezione. Fui interrogato e presi tutti 4. Gli altri studenti provarono a impedirmi con la forza di fare lezione e io, davanti ai professori, mi resi disponibile allo scontro fisico. Vista la mia risolutezza desistettero, ma dal giorno dopo quando io entravo a scuola si formava la bolla d’aria. Pur rimanendo in quella scuola, cercai amici altrove e fu una fortuna perché con molti di loro è nata un’amicizia profonda che dura tutt’oggi».

Il contatto intellettuale di Birindelli col pensiero liberale/libertario avvenne verso la fine degli anni ’90, mentre svolgeva gli studi universitari di economia, a cui era approdato da ingegneria. Nel 1998 gli capitò in mano per caso, di certo non grazie all’università, The Constitution of Liberty (La società libera) di Hayek. Birindelli ricorda ancora oggi la sensazione che ebbe leggendolo: una sorta di prima sistematizzazione di idee confuse che da sempre aveva dentro di sé.

Prima di leggere quel libro per uno degli ultimi esami di economia dovette studiare il libro di James Meade Libertà, eguaglianza ed efficienza, a suo avviso «un testo collettivista delirante del genere di A Theory of Justice di Rawls ma forse pure peggio. Lo stavo preparando insieme a un amico e ricordo che durante lo studio io esplodevo in reazioni rabbiose leggendolo, imprecando e perfino gettando il libro contro il muro, con grande divertimento del mio amico. All’esame presi 30. Dopo l’ultima domanda chiesi al professore se potevo esprimere il mio pensiero su quel libro. La risposta testuale fu: “Lei è qui per ripetere quello che le è stato dato da studiare, non per dire la sua opinione”. Questo per dire che, anche se il mio approccio col pensiero libertario avvenne solo verso la fine degli anni ’90 in forma confusa, destrutturata e contraddittoria, esso faceva già parte di me. Forse l’aveva sempre fatta. A differenza di altri miei amici non solo non ho mai avuto la fase “comunista”, “di sinistra”, “fascista”, “di destra”, “democristiana”, ecc. ma non ho mai provato altro che ostilità per queste posizioni».

Gli anni di preparazione

Dopo la laurea in economia e il primo contatto col pensiero liberale attraverso F.A. Hayek e Bruno Leoni, Birindelli andò a lavorare prima a Londra come analyst in una banca d’investimento, poi a Roma presso una società di consulenza, poi fra Roma e Londra come consulente indipendente. Il seme tuttavia aveva attecchito e questi non furono anni di stacco ma di preparazione. Lo stesso percorso lavorativo, infatti, esprime la sua esigenza di avvicinarsi alle tematiche filosofico-politiche e di avere più tempo per studiarle.

Nel 2004-2005 scrive un primo pezzo liberale: una sceneggiatura per un film ispirata al pensiero di Hayek. Il bisogno di studiare filosofia politica libertaria e di scriverne diventa sempre più impellente, e nel 2007 decide di mettere lo studio e la scrittura al centro della sua vita sostenendosi con un’attività indipendente di investimenti finanziari. Lascia così la consulenza e, per rafforzare la propria formazione, nel 2008 segue un Master alla London School of Economics: «Il Master avrebbe dovuto essere in “filosofia delle scienze sociali” – dichiara Birindelli– ma in effetti è stato un Master in collettivismo: Cohen, Sen, Rawls a palate; unico libertario Nozick. Quando chiesi al direttore del corso perché non c’era un solo testo sugli austriaci la risposta fu: “Noi quella roba lì non la facciamo”. In fondo quel Master mi è stato utile, non solo perché da solo non avrei mai avuto lo stomaco di approfondire il pensiero collettivista, ma anche perché mi ha dato l’occasione di sperimentare un metodo opposto a quello che mi era stato imposto all’università. Alla LSE, e più in generale nelle università anglosassoni, esprimere la propria opinione è l’aspetto fondamentale. Se uno ripete alla perfezione quello che ha studiato non consegue il Master».

Tra i corsi della London School Birindelli ne frequenta anche uno di “Storia della scienza”, di fatto una storia della Rivoluzione Copernicana, che gli dà l’opportunità di sviluppare una griglia interpretativa che sintetizzerà nei riferimenti all’astronomia presenti nei suoi saggi successivi. Se il suo pensiero e i suoi scritti si basano sulla centralità della Legge e sulla contrapposizione fra sistemi di riferimento alternativi (ciascuno dei quali porta con sé le proprie – altrettanto incompatibili – idee non solo di legge, ma di uguaglianza davanti alla legge, certezza della legge e così via) lo deve anche a quel corso che con la filosofia politica e l’economia non aveva nulla a che fare. Grazie allo studio combinato della storia della Rivoluzione Copernicana e del libertarismo giunge a pensare che un punto di contatto fra le scienze naturali e quelle sociali stia nel concetto di “paradigma” e nelle numerose e complesse implicazioni, su diversi livelli, che questo concetto porta con sé.

Nel 2009, finito il Master, con alcuni colleghi fonda il Catallaxy Institute col quale realizza alcune video-interviste a Pascal Salin, Raimondo Cubeddu e Victoria Curzon Price: «Decido di andare a vivere nella mia casa di campagna in Toscana, di occuparmi della piccola azienda agricola e dei miei investimenti finanziari e, parallelamente, di studiare e di scrivere. Da qui inizia il mio approfondimento sistematico della filosofia politica libertaria e poi la mia scoperta della scienza economica. Capisco solo allora che la laurea in economia mi era stata d’ostacolo a capire la scienza economica e che questa dovevo ancora iniziare a studiarla».

In questo periodo scrive due libri, che non saranno mai pubblicati: uno molto lungo e ambizioso diviso in quattro parti dove dà forma sistematica e strutturata al suo pensiero miniarchico, dal quale negli ultimi tempi si è mosso in direzione anarco-capitalista, e un altro più breve dove espande le sue riflessioni sulla Rivoluzione Copernicana, poi condensate nel brillante saggio “Il ruolo della bellezza nella scienza” presente in questo libro. Il 18 novembre del 2011 pubblica il suo primo articolo sul sito del Movimento Libertario e da lì inizia la collaborazione con Leonardo Facco e il contatto col microcosmo libertario italiano: «Gli articoli che fin qui ho scritto per il Movimento Libertario e per il MiglioVerde, e quindi i due libri che ne sono derivati – osserva Birindelli – sono in parte la trasposizione in forma di articoli del pensiero che avevo strutturato nel “librone” mai pubblicato e che è rimasto la mia più esaltante esperienza formativa: studiando da solo, quel libro era il mio modo di strutturare quello che studiavo secondo le mie linee di pensiero».

L’approdo alla centralità della Legge

Gli autori che lo hanno influenzato di più possono essere racchiusi in due gruppi, il primo formato da Hayek, Menger e Hume, il secondo da Bastiat, Rothbard e Mises: «Dai primi ho preso l’idea di legge come ordine spontaneo, dai secondi ho imparato la scienza economica. Di questi ultimi inoltre ho ammirato il rigore logico, la coerenza e il coraggio, cioè la capacità di andare contro tutti quando tutti sono contro la logica, che è ugualmente accessibile a chiunque. Il maggior punto di contatto tra questi due gruppi è la visione della sovranità della Legge e del libero mercato come due facce della stessa medaglia. Anche la lettura di Bruno Leoni è stata molto importante per capire questo aspetto. Il conflitto principale fra questi due gruppi è sul concetto astratto di legge: ordine spontaneo contro legge naturale».

«La mia idea di legge spiega Birindelliè in un certo senso un “misto” di queste due nel senso che di base è il principio di non aggressione rothbardiano, quindi molto più stringente di quanto non fosse l’idea di Hayek e Leoni. Ritengo però che la sua origine possa essere spiegata coerentemente solo come ordine spontaneo, facendo attenzione a evitare la confusione fra 1) l’avvio del processo che porta alla legge, che è utilitaristico: in questa fase di avvio del processo la convenzione della proprietà privata viene rispettata perché si osserva che “funziona” e riduce la conflittualità all’interno del gruppo sociale e fra gruppi sociali. In quanto utilitaristico, l’avvio di questo processo è incompatibile col principio di non aggressione e quindi con la libertà. Questo tuttavia non è un problema perché a questo stadio quella utilitaristica è una convenzione che non è ancora diventata principio morale e quindi legge; e 2) la sua conclusione, che invece è anti-utilitaristica: una volta che il processo è arrivato a compimento e la convenzione è diventata principio morale, e quindi legge, questo deve essere rispettato indipendentemente dalle sue conseguenze».

«La ragione principale della mia aderenza al principio di non aggressione come ordine spontaneo invece che come legge naturaleconclude Birindelliè che, se quel principio fosse una legge naturale, essa sarebbe l’unico ordine sociale non positivo a non essere un ordine spontaneo, e questa sarebbe una singolarità non da poco. Il principio di non aggressione (la Legge) inoltre è spiegabilissimo come ordine spontaneo mediante lo stesso processo che i giusnaturalisti applicano a tutte le altre formazioni sociali non positive e quindi a formazioni come la moneta e il mercato. In altri termini, il principio di non aggressione non ha bisogno di essere un assioma».

Come lo stato ha conquistato il Diritto

L’esortazione a tornare all’autentica idea della Legge come principio limitativo del potere, l’aspetto centrale della riflessione di Giovanni Birindelli, non ha nulla di astorico o utopistico. A coloro che considerano irrealistica la pretesa di sottrarre il diritto all’autorità politica bisogna ricordare che per millenni in Occidente il diritto è stato concepito come espressione della società, non come emanazione della volontà del potere, e che solo in epoca contemporanea l’autorità politica è riuscita a prevalere sul diritto e a ottenere la potestà legislativa. Il diritto pretorio romano, l’ordine giuridico medievale e la Common Law avevano in comune l’idea che il diritto fosse una questione che compete alla società civile e ai suoi esperti (avvocati, giudici, arbitri, giuristi, notai) e non allo stato. Fino alle soglie della Rivoluzione francese il potere politico non fu mai inteso come legislatore, ma al massimo come giudice supremo. I rari editti regi si limitavano a raccogliere le costumanze del regno, senza che il monarca avesse la possibilità di modificarle.

Proprio l’epoca medievale è stata quella in cui, grazie all’assenza di un ente ingombrante e onnipervasivo come lo stato, il diritto ha maggiormente avuto la possibilità di svilupparsi in maniera privatistica, competitiva e pluralistica. Non essendoci poteri titolari di un monopolio sovrano della forza poteva succedere che, a seconda della categoria personale dei destinatari, avessero vigenza su uno stesso territorio più ordinamenti giuridici: il diritto comune elaborato dai giuristi, il diritto canonico, la lex mercatoria prodotta e applicata dal ceto dei mercanti, il diritto feudale, gli usi civici, gli statuti comunali, le consuetudini locali. L’idea che gli uomini potessero fare leggi contrarie al Costume o alla Legge Naturale era invece assolutamente estranea al Medioevo e all’Antico Regime. Il corpus juris, cioè l’insieme della tradizione giuridica europea, era un «potente mezzo di disciplina sociale che non deve nulla al Potere, che gli si oppone e gli s’impone, che lo limita e tende a regolarlo» [Bertrand de Jouvenel, Il Potere, Rizzoli, 1947 (1945), p. 213].

Solo con la Rivoluzione francese si impone il concetto che si può creare il diritto, e non semplicemente constatarlo. Per la prima volta viene attribuita all’autorità politica la possibilità di rimettere in discussione, in qualsiasi momento, i diritti e i modelli di condotta degli uomini. L’assorbimento del diritto da parte dello stato, combinato con la soppressione dei corpi sociali, pone le basi per l’edificazione di uno stato monolitico, in cui non esiste alcun potere fuori da quello esercitato dallo stato, e nessun diritto fuori da quello enunciato dallo stato.

Nel mondo anglosassone, invece, il diritto che nasce dalle pronunce dei giudici nei tribunali riesce a svolgere meglio la sua funzione di limite al potere. La Common Law, spiega Jouvenel, è «un Diritto per nulla ispirato dai bisogni specifici del Potere, ma rispondente soltanto a quelli del corpo sociale. Dai suoi arcani nacquero quelli che sono chiamati in Inghilterra i “principi della Costituzione” e che non sono altro che una “generalizzazione dei diritti che i tribunali garantiscono agli individui”» [Ibidem, p. 322]. È questa la ragione del prestigio e dell’autorità morale che godono ancora oggi i giudici delle Corti inglesi e nordamericane.

 Sconfiggere il positivismo giuridico

Cos’è, infatti, il diritto? Per il dominante positivismo giuridico non sarebbe altro che un insieme di norme o di comandi emanati dagli organi competenti, con la previsione di una sanzione per i trasgressori. La modernità ha inteso infatti legare inscindibilmente il diritto allo stato, come se il primo non potesse esistere senza il secondo. Per Birindelli questo è l’inizio di tutta una concatenazione di conseguenze nefaste, perché così facendo si è oscurata la natura di ordine spontaneo del diritto, e lo si è ridotto a semplice voce del potere. In verità il diritto è fondamentalmente ordinamento, cioè ordine che nasce dal basso, dalla società civile che si autorganizza. Il diritto nasce dalla vita e dall’esperienza concreta degli individui, e si manifesta sotto forma di istituti privatistici, contratti, usi, consuetudini, pronunce arbitrali, precedenti giudiziari.

Negli ultimi duecento anni lo stato ha però gradualmente espropriato la società civile del suo sacrosanto potere di produrre diritto. Elevando la legge a fonte sopraelevata e attribuendo allo stato il monopolio della produzione giuridica la modernità ha realizzato, nelle parole di un grande storico del diritto come Paolo Grossi, un perfetto “assolutismo” giuridico, che si è addirittura rafforzato nell’età democratica, grazie al mito della volontà popolare. È tutto da dimostrare, infatti, che la legge rispecchi fedelmente la volontà di un popolo e non soltanto di chi detiene il potere politico [Paolo Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, 2003, p. 8].

Questa monopolizzazione statale della produzione del diritto non ha dato risultati migliori del tentativo dei regimi comunisti di pianificare dal centro l’economia. Per rendersene conto basta confrontare la fecondità e la longevità, talvolta millenaria, degli istituti giuridici romani e medievali sorti attraverso un processo di scoperta dal basso (dottrinale, giurisprudenziale, consuetudinario) con quella vera e propria immondizia giuridica prodotta quotidianamente in quantità industriali dall’Unione Europea, dallo stato e dagli enti locali, tanto che oggi nessuno sa quante e quali leggi siano attualmente in vigore in Italia: c’è chi dice duecentomila, chi di più. Sono normative quasi del tutto sconosciute, cervellotiche, inapplicate e inapplicabili, a conferma della cronica incapacità dello stato di produrre “certezza” giuridica.

La crisi in cui versa il monismo giuridico moderno basato sul principio “uno Stato, un territorio, un diritto” è ormai sotto gli occhi di tutti. Malgrado le sue pretese totalizzanti, il legislatore statale non ha alcuna possibilità di fare a meno della creatività giuridica della società civile, dal cui seno sono nati tutti i nuovi istituti e contratti commerciali apparsi negli ultimi decenni (il leasing, il factoring, il franchising, la joint-venture, il brokeraggio, il bartering, lo swap e tanti altri). La globalizzazione è un ulteriore fattore che favorisce l’adozione di regole giuridiche non statuali. Come nel Medioevo, il “vero” diritto, cioè quello effettivamente utilizzato, viene sempre più spesso prodotto dagli operatori economici, degli studi legali e dei giudici privati scelti dalle parti, e sempre meno dei governi. In questo modo, osserva Grossi, «il monopolio statale delle fonti, sacrario e baluardo della civiltà giuridica uscita dalla Rivoluzione dell’89, anche se resta ufficialmente proclamato e preteso, è sempre più profanato o eluso» [Ibidem, p. 69], piaccia o meno ai tanti servili propagandisti del positivismo giuridico.

I contributi teorici

Si possono così riassumere i contributi al pensiero libertario che Birindelli offre in questi saggi: innanzitutto il tema centrale, già sviluppato nel suo precedente libro La sovranità della Legge, della Legge come ordine sociale spontaneo e non come comando dell’autorità. Si tratta di un tema piuttosto trascurato dai pensatori liberali e libertari, se si escludono autori come Bruno Leoni, Friedrich A. von Hayek o Michael Oakeshott.

Collegando il tema del primato della Legge alla prasseologia della Scuola Austriaca, che per l’autore coincide con la scienza economica tout court, viene poi messo in evidenza il parallelo che sussiste tra la legge fiat, creata dal nulla dal potere politico, e la moneta fiat, creata dal nulla dalle banche centrali: l’inflazione legislativa, da questo punto di vista, ha la stessa natura dell’inflazione monetaria e del credito.

Un terzo punto di rilievo riguarda l’epistemologia, campo nel quale ha sottolineato, in pagine suggestive, la necessaria bellezza e armonia della verità. Una teoria scientifica corretta presenta sempre un’eleganza impossibile da ritrovare in una teoria sbagliata. La clamorosa incoerenza della teoria economica keynesiana, nella quale microeconomia e macroenomia non si combinano (dato che un comportamento razionale a livello individuale come il risparmio diventa socialmente dannoso a livello aggregato) rappresenta dunque un segno esteriore della sua falsità.

La stessa bruttezza della teoria socialista è un riflesso della sua rozzezza teorica. Birindelli non esita a definire i socialisti “poco intelligenti” per la loro incapacità di comprendere il concetto di ordine spontaneo. I socialisti possono essere persone acutissime nelle attività più disparate, ma non lo sono nelle scienze sociali. L’idea di risolvere i problemi sociali attribuendo ogni potere, ogni risorsa e ogni forza al governo è infatti incredibilmente puerile o primitiva. È una reazione istintiva della mente impreparata ad affrontare l’immensa complessità dei fenomeni sociali. Non richiede studio, riflessione, osservazione.

Anche la mia esperienza universitaria alla facoltà di legge conferma queste intuizioni di Birindelli. Le materie che avevano a che fare con la legge fiat (diritto amministrativo, diritto del lavoro, legislazione urbanistica, ambientale, comunitaria e così via) erano infatti di una bruttezza estrema, e studiarle era penoso. Bisognava imparare migliaia di norme incomprensibili e contraddittorie, partorite a getto continuo dagli organi legislativi sulla base delle pressioni politiche del momento. Come si poteva chiamare “diritto” una spazzatura simile? Molto più affascinanti erano le lezioni che parlavano della Legge, cioè di quei principi giuridici millenari che avevano superato la prova del tempo, come il diritto privato, il diritto civile, il diritto commerciale, il diritto romano, il diritto comune. Anche nel diritto ciò che è valido, ciò che funziona da millenni, è bello e attraente; ciò che è falso è esteticamente orrendo.

(Auto)ritratto dell’uomo che pensa

I saggi presenti in questo libro non sono solo astratti esercizi di ragionamento, ma contengono sempre degli agganci concreti alla storia e all’attualità. Sono particolarmente affascinanti, ad esempio, i riferimenti storici all’Inghilterra vittoriana, l’epoca in cui la civiltà liberale classica dell’Occidente toccò il suo apogeo. Venendo all’attualità, uno dei saggi più riusciti del libro si intitola “La solitudine dell’uomo che pensa”, ed è la recensione del film La grande scommessa di Adam McKaysullo scandalo Lehman Brothers e sulla crisi economica del 2008. Il solitario uomo pensante di cui parla Birindelli è colui che continua ad agire sulla base di un pensiero razionale, mentre tutti gli altri agiscono sulla base delle idee ricevute e dei pregiudizi prevalenti nella società.

L’uomo pensante deve avere la forza di resistere solo contro tutti; di affermare la verità nell’incomprensione generale; di agire in modo razionale pur apparendo agli altri come un folle. Deve tenere la barra dritta, anche se in certe condizioni pochi possono essere capaci di farlo. Quando ha scritto queste parole è probabile che Giovanni Birindelli pensasse a figure come Ludwig von Mises o Murray N. Rothbard. Credo invece che, magari inconsciamente, abbia realizzato un perfetto autoritratto della persona che è, o che cerca di essere.

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5 COMMENTS

  1. Salve Sig. Birindelli ,
    Da profano le chiedo, lo stato con la potestà sulla legge non dà garanzie e tutele per le classi più deboli? Dovessimo affidarci solo ai contratti privati non nascerebbero secondo lei delle palesi ingiustizie in virtù di posizioni forza grandemente sbilanciato come quella tra una grande multinazionale e un lavoratore soprattutto se dipendente?
    Vorrei inoltre tanto sapere che relazione c’è secondo lei tra la moneta creata dal nulla e il monopolio privato sulla sua gestione ad opera di grandi gruppi bancari? Cioè io ravvedo una contraddizione tra quella che è una prerogativa pubblica (il controllo dell’emissione della moneta) ma che di fatto è esercitata da privati con contratti tra privati in cui lo Stato se la moneta fosse davvero sua emanazione non si avrebbero le storture che abbiamo oggi.

    In pratica secondo me ma so di non avere cultura specifica in niente nella mia vita, dare tutto in mano ai privati, affidarci al mercato non comporta a prosperare e al benessere collettivo, valutando gli effetti che da sempre si scatenano quando settori pubblici finiscono sotto il controllo di privati mi viene da pensare che un’ingerenza statale in alcuni ambiti (anche se auspicherei molto di più un coinvolgimento dei cittadini) sia una cosa grafica e necessaria. Non pareggio per il socialismo o il comunismo come ci è stato insegnato a scuola ma non mi sentirei affatto garantito se alla fine fossero i più forti e i più intelligenti a detta legge in ogni ambito della vita sociale ed economica.
    Anzi a me oggi sembra proprio sia così e che lo stato sia stato del tutto spodestato dal suo ruolo.

    Forse mi sono un po’ allargato andando furori tema? Se è così chiedo scusa ma le implicazioni del discorso d’altronde sono così ampie che è difficile discutere in un rigido seminato imposto arbitrariamente.

    Ultima domanda a titolo personale: la finanza alla fine dei conti con i suoi giochi speculativi è una sistema a somma zero. C’è chi guadagna e chi perde un po’ come la partita doppia. Non si sente un po’ in colpa per aver partecipato anche lei a questo meccanismo che scommettendo non possono che provocare danni dal lato opposto a chi vince?

    La mia non è polemica ma vorrei capire meglio, soprattutto i discorsi che si contrappongono eticamente al mio punto di vista.

  2. Grazie ancora caro Guglielmo per questa splendida prefazione. È davvero un onore che non credo di meritare. E sono davvero felice per la nostra stima e amicizia reciproca. Un abbraccio

    • Caro Giovanni, sono io ad essere onorato del tuo invito a scrivere la prefazione del tuo brillantissimo libro.

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