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Miseria morale ed intellettuale dei maestri della sinistra

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di GUGLIELMO PIOMBINI

Il professor Lorenzo Infantino, curando la pubblicazione del pamphlet del 1766 A proposito di Rousseau di David Hume, ha riportato l’attenzione su una disputa tra i due filosofi che all’epoca fece molto discutere in tutta Europa. All’origine di quel contrasto non stavano solo due diverse visioni del mondo, quella liberale e individualista di Hume contro quella egualitaria e collettivista di Rousseau, ma anche due personalità lontanissime tra loro: il pensatore scozzese era di carattere mite, umile e riservato, mentre il pensatore ginevrino era megalomane, paranoico e litigioso.

Hume si era generosamente offerto di ospitare in una propria casa in Inghilterra Rousseau, che nell’Europa continentale era ricercato dalla polizia per i suoi scritti giudicati sovversivi. In più si era anche impegnato presso le autorità per fargli avere una pensione. A seguito però di una burla organizzata da Horace Walpole ai danni di Rousseau (una finta lettera pubblicata sui giornali), quest’ultimo si convinse, a torto, che Hume fosse a capo di una “cricca” di nemici che cospiravano contro di lui. Da qui la rottura irreparabile tra i due, nella quale Hume, controvoglia e solo dopo le insistenze degli amici, si sentì obbligato a rispondere alle sgradevoli accuse pubbliche di Rousseau.

Le credenziali morali dell’intellettuale impegnato

Nella vicenda del burrascoso rapporto tra Hume e Rousseau compare una figura che è diventata tipica della contemporaneità, l’intellettuale socialmente impegnato, che nacque proprio in questo periodo, e della quale Rousseau fu probabilmente il prototipo originario. Nel ‘700, con il declino del potere della Chiesa, emerse infatti un nuovo personaggio, l’intellettuale laico, la cui influenza è continuamente cresciuta negli ultimi duecento anni. Fin dall’inizio si proclamò consacrato agli interessi dell’umanità e investito della missione di redimerla con il suo insegnamento.

L’intellettuale progressista non si sente più vincolato da tutto ciò che apparteneva al passato, come le consuetudini, le tradizioni, le credenze religiose: per lui tutta la saggezza accumulata dall’umanità nel corso dei secoli è da gettare via. Nella sua sconfinata presunzione afferma di saper diagnosticare i mali della società e di poterli curare con la sola forza del suo intelletto. Pretende cioè di aver escogitato le formule grazie alle quali è possibile trasformare in meglio le strutture della società e i modi di vivere degli esseri umani.

Ma che credenziali morali hanno gli intellettuali impegnati come Rousseau e i suoi numerosi eredi, che pretendono di dettare le norme di comportamento per l’intera umanità? In realtà, se guardiamo la loro vita, troviamo spesso una costante: quanto più proclamano la loro superiorità morale, la loro dedizione al bene e il loro disinteressato amore per l’umanità, tanto più si comportano in maniera spregevole e indegna con le persone con cui hanno a che fare nella vita di tutti i giorni, con i famigliari, gli amici, i colleghi.

Lo snaturato Jean-Jacques Rousseau

Jean-Jacques Rousseau avversò tutti gli aspetti della civiltà: arte, scienza, industria, commercio, proprietà privata, famiglia. Fu il primo ad autoproclamarsi ripetutamente amico di tutto il genere umano, ma pur amando l’umanità in generale, era portato a litigare con gli esseri umani in particolare e a sfruttare tutti coloro con cui ebbe a che fare, soprattutto i benefattori, come Hume, il mite Diderot e numerose donne che lo mantenevano.

Le biografie lo dipingono come un mostro di vanità, di egoismo, di ingratitudine. Diceva di essere un uomo votato all’amore, ma non mostrò mai nessun affetto per i genitori, il fratello, la convivente e soprattutto i figli. Rousseau infatti, pur ergendosi nelle sue opere a maestro di pedagogia, si comportò verso i propri figli nella maniera più snaturata: ebbe cinque figli con la sua convivente, e tutte le volte decise di abbandonarli in un orfanotrofio. Teniamo conto che, a quei tempi, le condizioni di vita negli orfanotrofi erano terribili: solo cinque/dieci bambini su cento sopravvivevano diventando adulti, finendo quasi tutti per fare i mendicanti o i vagabondi. Rousseau non annotò neppure la data di nascita dei suoi cinque figli e mai si preoccupò della loro sorte.

Karl Marx, lo sfruttatore

Personalità di questo tipo sono sorprendentemente comuni tra gli intellettuali rivoluzionari. Anche di Karl Marx erano noti il gusto per la violenza verbale e per la sopraffazione dell’avversario, così come la tendenza a sfruttare quanti gli stavano intorno. Marx litigava furiosamente con tutti coloro ai quali si associava, a meno che non riuscisse a dominarli. In particolare condivideva con Rousseau la tendenza a litigare con amici e benefattori. Si faceva mantenere da Friedrich Engels, chiedeva denaro a tutti e lo sperperava regolarmente in borsa o in altri modi, condannando a una vita precaria i famigliari. Trattava in maniera tirannica la moglie e le figlie.

Nelle sue opere si lamentava dei bassi salari della classe lavoratrice, ma l’unica persona di questa classe con cui entrò in rapporti, la propria instancabile domestica, la sfruttò in maniera indecente. Per tutta la vita non le diede mai neppure un soldo: solo il vitto e l’alloggio. Addirittura la mise incinta e non riconobbe il figlio, con il quale non volle mai avere nulla a che fare. Chiese anzi a Engels di riconoscerlo al suo posto.

Che Guevara, la fredda macchina per uccidere

Anche nelle biografie di tanti altri miti della sinistra troviamo ripetersi, con sorprendente regolarità, le stesse caratteristiche morali e caratteriali di Rousseau e Marx. Uomini ancora oggi esaltati, come Lenin, Mao Zedong, Ernesto Che Guevara, erano assetati di potere e di dominio sugli altri, e il loro linguaggio feroce esprimeva tutto il disprezzo per la vita umana.

Le testimonianze delle persone che gli sono state vicine descrivono Che Guevara come una “macchina di morte”. Provava un grande piacere nell’ammazzare a freddo, e fece fucilare o giustiziò personalmente centinaia di persone senza processo e solo sulla base di sospetti: «Odio, violenza, assassinio, fucilazioni, morte, vendetta, tortura, sono le parole che tratteggiano al meglio Ernesto Che  Guevara» (Leonardo Facco, C’era una volta il Che, p. 64). Le sue parole e azioni trasudavano un odio incontenibile. Affermò ad esempio: “La via pacifica è da scordare e la violenza è inevitabile. Per la realizzazione di regimi socialisti dovranno scorrere fiumi di sangue nel segno della liberazione, anche al costo di milioni di vittime atomiche”.

Bertolt Brecht, servile adulatore dei tiranni

Il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, ancora oggi molto studiato nelle scuole, rappresenta l’esempio tipico dell’intellettuale di sinistra che si mette al servizio di una spietata dittatura in cambio di onori ufficiali e privilegi. Negli anni Trenta giustificò tutti i crimini di Stalin, anche quando le purghe riguardavano i suoi amici. Dopo la seconda guerra mondiale si mise al servizio del regime della Germania Est, avallandone tutte le iniziative internazionali e divenendo il più fidato di tutti gli scrittori reclutati dal partito comunista. In cambio ricevette enormi privilegi. Aveva sempre a disposizione grosse somme di valuta straniera e viaggiava continuamente all’estero, dove lui e la moglie facevano gran parte dei loro acquisti; anche in Germania Orientale aveva accesso ai negozi aperti soltanto ai funzionari di partito e ad altri privilegiati.

Le masse popolari di cui si dichiarava paladino (ma che in privato disprezzava) erano però alla mercé della politica di razionamento del regime, e quasi alla fame. Il 17 giugno 1953 scoppiò a Berlino Est una rivolta operaia contro il regime socialista, che venne soffocata con l’aiuto dei carrarmati sovietici. Brecht colse l’occasione per guadagnarsi ulteriori benemerenze presso il regime accusando pubblicamente i rivoltosi di essere una “marmaglia fascista e guerrafondaia” composta “di giovani diseredati di ogni risma”.

Come Rousseau e Marx, si disinteressò sempre dei suoi figli legittimi e illegittimi. Secondo il consueto cliché dell’intellettuale impegnato, le idee venivano prima della gente, l’Umanità con la maiuscola prima degli uomini e delle donne, delle mogli, dei figli. Citando Lenin, Brecht stesso sosteneva che per essere al servizio della collettività bisognava non avere troppi riguardi per gli individui (Paul Johnson, Gli intellettuali, 1989, p. 240).

Jean-Paul Sartre, il padre spirituale di Pol Pot

Uno dei maître à penser della sinistra più osannati, ma la cui influenza è stata più negativa, fu Jean-Paul Sartre. Durante la seconda guerra mondiale, quando la Francia era occupata dai nazisti, si comportò in maniera opportunistica. Venne chiamato a insegnare filosofia al famoso liceo Condorcet, i cui docenti erano perlopiù in esilio o nella clandestinità o nei campi di concentramento. Non fece niente per la Resistenza. Per gli ebrei deportati non mosse un dito e non scrisse una parola. Era concentrato esclusivamente sulla propria carriera.

Dopo la fine della guerra fiutò l’aria e divenne una celebrità sposando le cause della sinistra radicale e predicando la sua fumosa filosofia esistenzialista. Era legato alla scrittrice Simone de Beauvoir, la quale, a dispetto delle sue idee femministe, si comportò per tutta la vita come la sua schiava sottomessa, accettando che Sartre la tradisse apertamente con le tante donne del suo harem. Negli annali della letteratura, osserva lo storico Paul Johnson, sono pochi i casi di un simile sfruttamento della donna da parte dell’uomo.

Sartre mantenne sempre un imbarazzato silenzio sui campi di concentramento di Stalin. L’intervista di due ore che rilasciò nel luglio del 1954, al ritorno da un viaggio nell’Unione Sovietica, è da annoverare tra le più abiette descrizioni dello Stato sovietico che un intellettuale di fama abbia mai reso al mondo occidentale dopo quella di George Bernard Shaw agli inizi degli anni ’30. Molti anni dopo dichiarò di aver mentito. Negli anni successivi esaltò con parole insensate Fidel Castro (“Il paese emerso dalla rivoluzione cubana è una democrazia diretta”), la Yugoslavia di Tito (“È la realizzazione della mia filosofia”), l’Egitto di Nasser. Particolarmente calorose furono le lodi per la Cina di Mao.

La sua predicazione ebbe conseguenze deleterie. Pur non essendo un uomo d’azione, incitava continuamente gli altri all’azione violenta. Poiché era molto letto tra i giovani, fu il padrino teorico di molti movimenti terroristici degli anni ’60 e ‘70. Infiammando i rivoluzionari africani, diede un contributo alle guerre civili e agli assassini di massa che sconvolsero quel continente dopo la decolonizzazione. Ma ancor più funesta è stata la sua influenza nel Sudest asiatico. Pol Pot e quasi tutti gli altri capi dei khmer rossi che dal 1975 al 1979 assassinarono brutalmente più di un quarto della popolazione cambogiana avevano studiato a Parigi durante gli anni ’50, e lì avevano assorbito la dottrina sartriana della necessità della violenza. Quegli assassini di massa sono dunque i suoi figli ideologici.

Quando Sartre morì, nel 1980, una folla immensa composta soprattutto da giovani gli tributò al funerale gli stessi onori che a suo tempo furono tributati a Rousseau. «A quale grande causa volevano rendere onore?», si chiede perplesso Paul Johnson. «Quale fede, quale illuminante verità sulla natura umana volevano affermare con la loro massiccia partecipazione? Difficile dirlo» (Gli Intellettuali, p. 323).

I veri maestri

È molto difficile trovare un cattivo maestro di pensiero che non sia stato anche un cattivo maestro di vita. John Maynard Keynes, ricorda Murray N. Rothbard nel suo saggio Keynes, The Man, era un individuo “arrogante e sadico, un prepotente intossicato dal potere, un bugiardo deliberato e sistematico, intellettualmente irresponsabile… Un edonista di breve periodo, un nichilista nemico della morale borghese, che odiava e il risparmio e che voleva annientare la classe dei creditori, un imperialista, un antisemita e un fascista”.

Se invece guardiamo ai pensatori che hanno difeso la libertà individuale troviamo quasi sempre uomini dalla tempra molto differente. David Hume era una persona caratterialmente opposta a Rousseau: mite, tranquilla, affabile, di buon senso, che ha dedicato la sua intera vita agli studi. Caratteri simili li possiamo ritrovare in Adam Smith, Immanuel Kant, Frédéric Bastiat.

Emblematica la storia del grande economista liberale francese Jean-BaptisteSay, il quale nel 1799 era stato nominato tra i cento membri del Tribunato, e nel 1803 aveva pubblicato la sua opera principale, il brillante Trattato di economia politica. Napoleone gli offrì 40mila franchi all’anno se riscriveva alcune parti dell’opera in senso più favorevole ai suoi progetti economici interventisti. Say però rifiutò l’offerta per non sacrificare le sue convinzioni, e nel 1804 venne rimosso dalla carica di tribuno. Per guadagnarsi da vivere decise di impegnarsi nell’attività imprenditoriale, aprendo una manifattura cotoniera all’avanguardia che dava lavoro a quasi cinquecento persone.

Anche il filosofo liberale inglese Herbert Spencer ci ha dato una lezione di metodo, di carattere, di operosità. Realizzò una quantità sovrumana di lavoro culturale con una perseveranza e una caparbietà fuori dal comune, e si guadagnò da vivere nel libero mercato della cultura con i suoi articoli e libri di successo, rifiutando posizioni accademiche o cariche che gli venivano offerte.

Più vicino ai giorni nostri possiamo prendere gli esempi di Ludwig von Mises, Friedrich A. von Hayek, Murray N. Rothbard, Henry Hazlitt, Bruno Leoni, Sergio Ricossa Tutte personalità stimate e ammirate da chi gli è stato intorno, che non hanno mai cercato posizioni di potere, che hanno talvolta rinunciato a posizioni professionali di rilievo pur di rimanere coerenti con le proprie idee. Rifiutandosi di aderire alle mode culturali del momento, non hanno ricevuto riconoscimenti adeguati alla loro grandezza intellettuale e integrità personale.

Miseria intellettuale, morale, esistenziale

Giovanni Birindelli ha definito “poco intelligenti” i socialisti, per la loro incapacità di comprendere il concetto di ordine sociale spontaneo (Legge e mercato, 2017, p. 84.). Non si tratta di un insulto gratuito. L’intelligenza, infatti, ha tante facce: esiste l’intelligenza logica, matematica, musicale, emotiva, sociale, ecc.. Molti socialisti possono essere dei brillanti ingegneri, scienziati, scacchisti o artisti, ma sono decisamente ottusi nella comprensione dei fenomeni sociali, e questo spiega il fragoroso e ripetuto fallimento delle loro idee tutte le volte che sono state messe in pratica. L’idea fissa del socialismo, secondo cui l’autorità può migliorare le condizioni della società con i comandi, i divieti e la coercizione, è infatti incredibilmente puerile, e denota una mente impreparata a cogliere la complessità dei fenomeni sociali.

La miseria intellettuale si manifesta innanzitutto con gli errori intellettuali, i deliri ideologici, la completa mancanza di buon senso che caratterizza buona parte della letteratura socialista. Le biografie dei maestri di pensiero della sinistra dimostrano, con poche eccezioni, che tra il pensare male e il comportarsi male c’è meno distanza di quanto si pensi, perché la povertà di pensiero si accompagna spesso alla povertà morale e a quella esistenziale.

La miseria morale di molti intellettuali di sinistra si manifesta con la ferocia verbale, le esortazioni alla violenza, la demonizzazione degli avversari, la mancanza di rispetto per la dignità degli individui. Non è un caso che, negli ultimi 150 anni, tutti coloro che hanno teorizzato o invocato il ricorso allo sterminio di popoli o di gruppi sociali si sono definiti “socialisti”, e non è possibile trovare alcuna eccezione a questa regola.

Alla miseria morale è frequentemente legata la miseria esistenziale, che si esprime con l’egocentrismo patologico, la vanità, il desiderio frenetico di essere sempre sotto le luci della ribalta sposando tutte le mode culturali del momento, il servilismo, l’opportunismo, il parassitismo nei confronti del prossimo, l’incoerenza tra le proclamazioni altisonanti e le azioni grette o malvage.

L’intellettuale rivoluzionario non ha nessun titolo per vantare una qualche superiorità personale e per ergersi a maestro della società. Al contrario, con le sue ideologie farneticanti e il suo pessimo esempio umano, che ha corrotto la mente e il comportamento di milioni di giovani, l’intellettuale rivoluzionario rappresenta senza dubbio la figura più perniciosa dell’epoca contemporanea.

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5 COMMENTS

  1. Diffondere il loro ambito privato, sostiene giustamente Albert. Il guaio è che la diffusione ha dei costi. Anche se per risparmiare carta venisse pubblicato solo quest’articolo, i lettori saremmo sempre esclusivamente noi. Perché il tratto più evidente che si trova a sinistra è l’intolleranza, chi sta lì si rifiuterà sempre di leggere scritti come questo e pur non leggendolo sosterrà che si tratta di falsità palesi. Chiaramente lo diranno in inglese, “fàkkete niùssete”, loro anglofobi in diritto ma anglomani nel lessico. E soprattutto lo diranno senza citare alcuna fonte, altrimenti verrebbe fuori la verità come sui virus. Ma per il virus sinistro, l’unico antidoto sarebbe possedere un canale televisivo nazionale e ultranazionale. Chi ce l’ha, anche più di uno, ha preferito convivere con il virus stesso e contagiarsi. Anche attraverso una nanoparticella che non si chiama SARS ma Molta Europa Socialista, in sigla MES.

  2. Un perfetto esempio contemporaneo, nel campo della filosofia, è Umberto Galimberti. Assiduo copiatore di tesi altrui che spaccia per sue acute riflessioni, maniaco carrierista in università, durante una conferenza al festival della filosofia, infastidito dal brusio in piazza, interruppe il suo discorso per urlare ai presenti : “Ma cosa avete voi da chiacchierare, perché la gente parla?”

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