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Chomsky: anarchico finto, comunista vero!

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di GUGLIELMO PIOMBINI

“Niente mi scandalizza quanto gli intellettuali che sfruttano la competenza in un campo scientifico per prendere posizione su argomenti che ignorano”, dichiarò Chomsky al giornalista francese Guy Sorman in un’intervista di qualche tempo fa.

L’affermazione, però, sembra tagliata a misura sua. Chomsky conquistò infatti la celebrità come linguista del MIT di Boston a neanche trent’anni, grazie ai suoi studi di linguistica. Si stancò però ben presto di questa disciplina “che non consente di cambiare il mondo”, e forte della sua autorevolezza accademica divenne, alla fine degli anni Sessanta, l’emblema dell’intellettuale impegnato, sempre pronto a denunciare l’imperialismo americano e israeliano e a manifestare a favore di ogni causa di sinistra.

Non necessariamente però un buon linguista è anche un buon analista di politica internazionale, soprattutto quando il rigore e l’obiettività vengono sopraffatti dall’ossessione ideologica.

I suoi giudizi improvvidi l’hanno esposto infatti a più di una figuraccia. La difesa del regime comunista di Pol Pot, che fra il 1975 e il 1979 sterminò quasi un terzo della popolazione cambogiana, macchia ancora oggi la sua reputazione. Nel giugno del 1977 scrisse infatti su The Nation, insieme a Edward S. Herman, un articolo nel quale definiva “distorsioni di quarta mano” le testimonianze giornalistiche delle terribili condizioni in cui erano precipitati il Vietnam e la Cambogia dopo la vittoria delle forze comuniste. Per Chomsky queste “storie fantasiose sulle atrocità comuniste” avevano lo scopo di minare la credibilità di chi si opponeva alla politica estera statunitense. Chomsky presentava un’immagine idilliaca della situazione cambogiana e minimizzava il numero delle vittime (“poche migliaia”) paragonandole ai collaborazionisti giustiziati dai movimenti di resistenza alla fine della seconda guerra mondiale. “Il cosiddetto massacro dei khmer rossi – concludeva con sicurezza – è una creazione del New York Times”.

Due anni dopo, quando gli orrori cambogiani erano diventati di dominio pubblico e non potevano essere più negati, Chomsky disse che gli aspetti negativi del regime, come l’irregimentazione delle persone e il terrore, andavano bilanciati con “le realizzazioni costruttive a favore di gran parte della popolazione”. Non spiegò se l’abolizione forzata del denaro, dell’istruzione, della medicina moderna, della religione, della vita culturale e di ogni comunicazione con il mondo esterno rientrassero o meno tra i successi del regime.

Malgrado il suo appoggio acritico alle più feroci dittature comuniste, Chomsky non si è mai proclamato marxista, ma anarchico. Questa sua professione di fede è solo una ben studiata mossa opportunistica che gli permette di non doversi mai trovare a difendere l’applicazione delle sue idee nel mondo reale.

Al contrario dei pensatori libertari come Murray N. Rothbard, che hanno elaborato sistematicamente l’idea di una società anarco-capitalista senza Stato e interamente fondata sul mercato, Chomsky non ha mai tentato di approfondire le sue dottrine anarchiche a livello teorico. In questo modo il professore del MIT può condannare come “oppressivo” ogni sistema politico a lui non gradito, semplicemente paragonandolo al suo misterioso ed immaginario modello ideale.

Alla prova dei fatti il suo anarchismo, che dovrebbe condannare ogni forma di coercizione statale, si rivela assai selettivo. Da un lato, infatti, Chomsky non ha mai esitato ad appellarsi al potere statale centralizzato quando ci sono da colpire le multinazionali, le imprese private, la libertà di mercato o la proprietà privata; dall’altro ha sempre difeso appassionatamente ogni regime comunista totalitario, come ha fatto di recente con il Venezuela.

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