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Cosa è realmente vergognoso nei sistemi pensionistici?

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di MATTEO CORSINI

Nel 1980 il dittatore cileno Augusto Pinochet attuò una riforma pensionistica che prevedeva un passaggio dal sistema pubblico a uno sostanzialmente privato. Da allora è partito un lungo dibattito sui meriti e i limiti di un sistema basato su conti previdenziali individuali. Il basso tasso di sostituzione medio ha portato ad avere molti pensionati poveri, con controriforme del sistema a partire dal 2008. Nel 2021 è stato il presidente Sebastian Piñera, fratello di José, colui che fu tra coloro che predisposero la riforma del 1980, a spingere il sostegno pubblico a circa l’80% dei pensionati.

Per i fautori degli schemi pubblici, quanto avvenuto in Cile è un fallimento del neoliberismo. Da ultimo ho letto un commento di Shannon O’Neill su Bloomberg Opinion, che ritiene si tratti di una “vergogna”. Ma gli argomenti usati da O’Neill mettono in evidenza piuttosto alcune verità spesso taciute dei sistemi pubblici, oltre a evidenti problemi di implementazione che nulla tolgono alla validità del modello teorico.

Tutti gli schemi pubblici sono basati sull’utilizzo dei versamenti di chi sta contribuendo per pagare le pensioni già in corso di fruizione. Non è difficile rendersi conto che si tratta essenzialmente di uno schema Ponzi, destinato ad avere problemi di sostenibilità non appena la popolazione inizia ad invecchiare. Ovviamente, tanto più generoso è il sistema per i pensionati, tanto prima i nodi arrivano al pettine.

Nel 1980, scrive O’Neill, la giustificazione per la riforma fu duplice: “In primo luogo, i fondi privati avrebbero generato un maggior montante grazie alla migliore gestione, quindi pensioni più alte; in secondo luogo, il cambio avrebbe ridotto i costi per le casse pubbliche.” Nelle attese dell’epoca, il tasso di sostituzione medio sarebbe stato del 70%, ma le cose andarono diversamente e circa il 40% dei cileni 4 decenni dopo non aveva nessuna pensione. Il che ha portato alle controriforme e a costi per i pagatori di tasse ben superiori a quanto previsto.

Come mai le cose sono andate così? In primo luogo, per via di una bassa contribuzione e della mancata contribuzione, in quanto non obbligatoria, dei datori di lavoro. Evidentemente se la contribuzione media è stata del 10%, non stupisce che non si siano generati assegni elevati. Per non parlare di chi non ha contribuito affatto. Per esempio, i lavoratori autonomi potevano scegliere se aderire o meno. Per di più, soprattutto inizialmente, i fondi caricavano costi nell’ordine del 25-30% anticipato, il che ha ridotto le somme effettivamente investite. Qui, però, il problema è eventualmente di concorrenza.

Infine, quello che secondo O’Neill è il problema principale: i conti individuali “non possono gestire il rischio demografico in pool”. Il che è indubbiamente vero. L’alternativa, però, non è solo quella di obbligare tutti a contribuire a uno schema pubblico. Esistono anche soluzioni di mercato come le società di mutua assicurazione.

Ciò detto, è inevitabile che un sistema individuale non produca esiti redistributivi. Nel tessere le lodi dei sistemi pubblici, però, sarebbe opportuno chiarire bene come funzionano. Non ci sono pasti gratis. La mutualizzazione forzata dei rischi demografici e il funzionamento a ripartizione comportano ampie dosi di redistribuzione sia tra persone della stessa generazione, sia a carico delle generazioni future.

Il che, soprattutto quando la popolazione tende a invecchiare, porta a seri problemi di sostenibilità. Lo si vede chiaramente nei Paesi come l’Italia. La maggior parte della popolazione non ha ben chiaro come funzionino i sistemi pensionistici, anche perché l’informazione pubblica è (volutamente) lacunosa. Il che, da un punto di vista etico, rende questi sistemi perfino peggiori degli schemi Ponzi, nei quali l’adesione, ancorché basata su meccanismi truffaldini, avviene in modo volontario.

In definitiva, si arriva sempre alla scelta tra libertà e responsabilità individuale, oppure schiavitù fiscale e redistribuzione socialista.

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