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Il potere di putin fra hitler e stalin

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di SERGIO SALVI

putin hitler stalinDa quasi tre decenni, ormai, il “comunismo” ha cessato di essere operativo a livello internazionale. Non è nemmeno più descrivibile come qualcosa di compatto e unitario nell’ideologia e nella prassi. Sopravvive, come nome, soltanto in Cina, nel Vietnam, a Cuba, nella Corea del Nord e in poche altre pallidissime imitazioni statuali, mescolato con un capitalismo più o meno di stato, quando non col capitalismo tout court: ed è succubo consapevole delle onnipotenti e variegate “ragioni del mercato”, che sembrano essere diventate la nuova fede universale.

Appare allora più patetico che ridicolo professare l’anticomunismo rituale, quello di maniera in voga nel secolo scorso, che purtroppo ancora ci circonda e ci condiziona (Berlusconi docet). L’anticomunismo di maniera è infatti una forma perversa di ciò che va considerato il vero nemico dell’umanità e dell’intelligenza: il “luogo-comunismo”, che consiste nel ridurre in pillole, in formule e in aneddoti, tutti facili da trangugiare e da rammentare, una realtà complessa e quasi sempre paradossale, in modo da farla apparire diversa da quello che è. I luoghi comuni sono pericolosi perché si appiccicano alle nostre coscienze: Einstein ha detto, del resto, che «è più facile disintegrare l’atomo che un luogo comune».

Fermo restando il giudizio storico su un’esperienza, quella sovietica, che si rifaceva al comunismo ma si proclamava per fortuna soltanto “socialista”, e che resta da condannare, vorrei approfittare del conflitto in corso tra Russia e Ucraina, per tentare di chiarire alcune realtà tanto trascurate quanto evidenti. La principale è questa: ci sono sì neonazisti in Ucraina, ma in Russia ce ne sono molti di più. E contano anche di più, come la politica di Putin dimostra con i fatti nonostante le smentite verbali.

Il Partito Comunista della Federazione Russa, fondato nel 1993, erede diretto del celeberrimo PCUS, è oggi un partito “patriottico” di estrema destra. Il suo leader Gennadij Zjuganov, vecchio funzionario sovietico e paziente ricostruttore di ciò che fu il potente partito dissolto dall’implosione dell’URSS, ha ricevuto dalle mani di Putin, il 23 giugno 2014, in occasione del suo settantesimo compleanno, una prestigiosa onorificenza dell’Ordine governativo di Aleksandr Nevskij (eroe russo del XIII secolo) per i suoi meriti patriottici. Come se non bastasse, il giorno dopo ne ha ricevuto un’altra, ugualmente ufficiale e prestigiosa, dell’Ordine ecclesiastico della Gloria e dell’Onore, conferitagli dal patriarca di Mosca, Kiril, in quanto «difensore dei valori morali tradizionali della patria russa».

La posizione, ideologica e didattica di Zjuganov e del suo partito (che di nome fa ancora comunista!) è infatti questa: «reinterpretare il marxismo in chiave nazionale, di modo che l’esperienza sovietica diventi l’ultimo tassello di una secolare civiltà russa che ha reso grande il paese». È, in fondo, anche se meno disinvolta e piroettante, la stessa posizione di Putin, che è però molto più forte sul piano interno e internazionale. Oggi che il Comintern e il Cominform sono soltanto un ricordo, il nostro Zjuganov è appena il presidente di una sparuta Unione dei Partiti Comunisti dell’ex-Unione Sovietica, formata soltanto dal suo partito e dall’ormai esausto Partito Comunista dell’Ucraina del rinnegato Petro Symonenko, ridotto al lumicino perfino nel Donbas.

Mi sembra allora, diremo così, clamorosa, l’informazione davvero preoccupata, letta su MiglioVerde, di un complotto internazionale a guida comunista in atto nel Sudafrica, che mi sembra attendibile quanto una congiura libertaria guidata dal mio amico Leonardo Facco a Palazzo Chigi.

L’opposizione legale e parlamentare al governo di Putin (una flebile “opposizione di Sua Maestà”), oltre ai “comunisti” di Zjuganov, comprende anche il Partito Liberaldemocratico di Vladimir Žirinovskij, che è liberaldemocratico quanto il partito di Zjuganov è comunista. Vuole infatti una Russia più grande, che assorba Ucraina, Bielorussia e Casachia, guidata da un governo “forte e inflessibile”, uno stato che abbia il russo come unica lingua, controlli direttamente l’economia e detenga la gestione dell’agricoltura, dell’industria dell’alcool e del tabacco e perseguiti omosessuali, abortisti e fedeli di religioni non autoctone (cioè tutte, esclusa l’ortodossia di stato: e pensare che Žirinovskij è ebreo!).

Abbiamo visto come i “liberaldemocratici” russi la pensino sull’Ucraina. Annessione alla Russia, senza se e senza ma. Zjuganov è più cauto. Ha scritto: «il territorio e il popolo ucraino sono parte integrante della coscienza russa, della sua storia». Se non è zuppa, è certamente pan bagnato: modo di dire di noi toscani, anche di quelli come me che rifiutano di essere considerati parte integrante della coscienza italiana, della sua storia. Così come i catalani nei confronti della coscienza-storia spagnola, così come gli scozzesi nei confronti della coscienza-storia inglese.

Ma in Russia non ci sono soltanto Zjuganov e Žirinovskij. Secondo il Nucleo Antiterrorismo di Mosca, gli appartenenti a “gruppi” extraparlamentari di estrema destra, dotati di frange paramilitari attivissime, sono 200.000. È una lunga teoria di movimenti e di uomini con cui Putin ha avuto (ed ha) rapporti nemmeno tanto segreti e con i quali condivide una ispirazione di fondo: l’esaltazione e la tutela del popolo russo e il desiderio lancinante di contare di più nel mondo e abbandonare il ruolo di potenza forte ma marginale, che la fine dell’URSS ha procurato al suo paese. Tende, insomma, a un nuovo impero russo, protagonista di un mondo bipolare, recuperando l’esperienza sovietica ed ergendosi a tutore dell’etnia russa ovunque si trovi, così come i nazisti facevano con i tedeschi sparsi fuori dai confini del Reich. Per il momento, Putin si limita a proporsi come paladino armato dei troppi russi che i governi sovietici hanno insediato deliberatamente in Ucraina, nei paesi baltici e in Asia centrale, trasferendoli stabilmente al posto degli autoctoni. Per il momento, però, non rivendica alcuna tutela per i 3.000.000 di russi immigrati in America e il milione emigrato in Israele. Meno male.

Lo schieramento della destra extraparlamentare russa è un’opposizione che può definirsi “nazionalbolscevica” (così si chiamava del resto un suo importante partito legale – 1998/2007 – non inviso al potere). È una constatazione terminologica che rende comico e assurdo il giudizio di Putin su piazza Maidan e la rivoluzione ucraina come “golpe fascista”. È l’annessione della Crimea da parte di Putin che può definirsi “fascista” (o, meglio, nazista) alla stessa stregua dell’Anschluss dell’Austria da parte di Hitler (un referendum fasullo, in quanto fasullo, non è un referendum). Questo, da un punto di vista “legale”, pur tenendo conto del fatto che la maggioranza dei crimeani è russa (anche se da meno di due secoli) e quella dell’Austria è inequivocabilmente tedesca. Il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli ma anche l’intangibilità dei confini tra stati quando sono stati liberamente riconosciuti dagli stati medesimi, a meno che gli stati stessi non vi rinuncino.

Ebbene, la “macchina del fango”, che è una specialità russa dai tempi dello zar Alessandro III, passando per Stalin e Putin, è riuscita a convincere parte dell’opinione pubblica europea e americana che i nazionalisti ucraini sono tutti “fascisti”: quando, invece, è la Russia ad ospitare il maggior numero di “fascisti” redivivi e a seguirne “sul campo” le indicazioni (vedi Crimea e Donbas). La propaganda russa è molto “tecnologica” e sofisticata e le sue “veline” sono diffuse con un surplus di entusiasmo perfino dal “libertariato” nostrano, che mi sembra egemone all’interno della redazione del nostro MiglioVerde. Putin ha sedotto del resto, con grande facilità, Salvini, Berlusconi, la Meloni, la Le Pen, Casa Pound, Forza Nuova e, dulcis in fundo, ciò che resta di Rifondazione Comunista: con molte chiacchiere e, si dice, qualche consistente sovvenzione.

Per parlare con maggiore cognizione di causa dell’attuale “fascismo” russo (più vicino semmai al nazismo) va ricordata la contraddizione di fondo insita nella costruzione dello stato sovietico. Da un lato la spinta “internazionalista” fatta propria da Lenin, basata sul riconoscimento del diritto all’autodeterminazione «fino alla separazione statuale» per tutti i popoli racchiusi nell’impero, debitamente registrato nella Costituzione sovietica, in virtù del quale le quindici repubbliche federate hanno potuto separarsi in maniera pacifica e perfettamente legale: cosa impossibile, sulla carta, ad esempio, per i cinquanta stati americani o per i sedici Laender tedeschi.

Dall’altro lato, prendeva vigore un persistente sentimento nazionale russo annidato nella coscienza dei dirigenti sovietici, destinato a crescere via via che l’ipotesi di una rivoluzione mondiale si allontanava nel tempo e nello spazio fino a costringerli ad elaborare la teoria della “costruzione del socialismo in un solo paese”, l’URSS appunto, di cui i russi costituivano il 51% della popolazione e detenevano l’80% del potere.

La vittoria nella seconda guerra mondiale, ha ingigantito questo orgoglio sempre più smisurato. Il 24 maggio 1945, Stalin promosse un brindisi durante una riunione dei comandanti vittoriosi dell’Armata Rossa con queste parole: «Bevo innanzitutto alla salute del popolo russo perché appartiene alla nazione più straordinaria tra tutte quelle che compongono l’Unione Sovietica. Propongo questo brindisi alla salute del popolo russo perché in questa guerra si è conquistato il riconoscimento unanime di guida dell’URSS».

Anche se è vero che ucraini, baltici, caucasici hanno in parte collaborato con i tedeschi invasori, non vanno dimenticate alcune realtà anche se misconosciute.

Alla fine del 1944, i tedeschi, ormai sconfitti sul campo, per opporsi alla disfatta imminente, decidono di istituire in Germania un governo russo anticomunista in esilio, il KORN, e pubblicano un manifesto dove auspicano un nuovo regime per una futura Russia “libera dal bolscevismo” da inserire nel contesto del “nuovo ordine europeo” con piena sovranità. Fino ad allora i tedeschi avevano considerato i russi come Untermenschen da deportare in massa, a guerra finita, in Siberia per lasciare la Russia europea ai coloni tedeschi, famelici di “spazio vitale”.

Il KORN istituì per prima cosa un’“Armata Russa di Liberazione” (ROA), al comando del generale Andrej Vlasov, eroe dell’Armata Rossa (divenuto acerrimo nemico di Stalin per un ordine sbagliato) che mise in campo in pochi mesi due divisioni di 50.000 uomini, arruolati principalmente tra i sei milioni di prigionieri di guerra russi e con l’apporto dei superstiti delle armate bianche emigrati negli anni Venti in Germania e in Francia (soprattutto cosacchi del Don). La ROA (la R stava per russkaija, con un richiamo alla grande Rus’, e non rossijskaija, dal nome ufficiale dello stato russo) esibiva insegne zariste e accoglieva almeno tre componenti: quella imperialista pura, che si rifaceva all’autocrazia, quella “democratica” che si ispirava ai principi liberali della rivoluzione del 1905, “tradita” dai bolscevichi, e quella “nazionalbolscevica” cui accenneremo tra poco.

La ROA ebbe il suo battesimo del fuoco il 13 aprile 1945 e seguì, combattendo con impegno al loro fianco, la ritirata delle truppe germaniche. Si sciolse alla fine della guerra e si consegnò agli americani che la girarono disinvoltamente ai sovietici i quali misero a morte la maggioranza dei suoi componenti, Vlasov in testa. Ai cosacchi della ROA era stata assegnata, dai tedeschi, la Carnia, dove istituirono un loro governo durato sette mesi, prima della rotta finale. Anche l’Italia, come si vede, fu coinvolta in questa affaire.

Il nazionalbolscevismo era un movimento sorto all’interno del partito nazista (che del resto si richiamava, nel nome, al socialismo) ed era sì nazionalista sfegatato, esulcerato dalla guerra perduta e con l’orgoglio ferito, ma anche anticapitalista, antindividualista, e antiborghese, sostenitore della nazionalizzazione dell’economia fino a salutare la rivoluzione sovietica ed auspicare, tramite una sua minoranza interna, nel congresso del partito del 1926, l’alleanza organica della Germania con l’URSS in funzione antioccidentale. Hitler scelse invece la carta dell’alleanza, ancora più organica, col grande capitale, l’alta burocrazia e l’esercito, e nel 1934, con la “notte dei lunghi coltelli”, catturò i principali esponenti di questa tendenza e li fece assassinare in carcere. Uno di loro, che sfuggì all’arresto, Otto Strasser, amico di Zinoviev, aveva lasciato da sinistra il partito nazista già nel 1930 e aveva fondato il Fronte Nero, un piccolo partito che fu costretto ad operare in clandestinità e in esilio, al quale fu affibbiato il nome di “nazionalboscevico” (che non risultò sgradito e si affermò nella terminologia politica).

Uno dei personaggi più importanti del nazionalbolscevismo fu Ernst Niekisch che Hitler fece arrestare nel 1937 e condannare all’ergastolo. Venne liberato dall’Armata Rossa nel 1945, appena i sovietici avevano messo piede a Berlino, e collaborò intensamente col governo parasovietico dell’allora Germania Est. Nel 1953 ruppe con il partito comunista locale e fuggì a Berlino ovest. Fu comunque il trait-d’union anche fisico tra le vecchia sinistra nazista e il partito comunista sovietico, sempre più imbevuto di nazionalismo russo, in un momento chiave della politica interna dell’URSS.

Mentre siamo tutti al corrente dell’opposizione democratica in URSS, quella dei diritti civili, dei samizdat clandestini e di Andrej Sacharov, poche sono le informazioni disponibili sul risorgere impetuoso di un nazionalismo russo che si riorganizzava nell’immediato dopoguerra fuori da ogni travestimento “sovietico” fino ad auspicare, sempre meno in sordina, la caduta del regime in una prospettiva “neo-imperiale”. C’è, ad esempio, il gruppo Rodina (Memoria) che si maschera da “Russia nostra” (il modello del nome è italiano). Denuncia infatti nel 1961 la decisione di costruire il nuovo palazzo dei congressi e un nuovo grande albergo dentro il Cremlino, da realizzarsi abbattendo sei chiese del XV secolo, alcuni palazzi di boiardi del XVI, i resti delle mura della cittadella e il palazzo imperiale del XV-XVI secolo. E scrive: «È forse questa la grande nazione che ha dato al mondo tanti eroi e tanti santi? Abbiamo dimenticato i nostri avi, il nostro eroico passato e il nostro nome glorioso. Abbiamo abiurato la nostra nazionalità».

Poi, gli obbiettivi, alla faccia di Sacharov, si precisano: «Il problema dei diritti civili è meno importante, nell’URSS, di quello della nazione russa». E ancora: «Non facciamo più alcuna distinzione tra russi, bielorussi e ucraini». Tutto il complesso lavoro di riconoscimento delle varie nazionalità sovietiche viene respinto nonostante i dati pur ineliminabili forniti da tempo dalla scienza e della linguistica moderne. Per questi fanatici gli ucraini sono malorussi, i crivisci bielorussi, i russi velicorussi: tutti russi, insomma, anche se grandi, medi o piccoli, bianchi, neri o rossi a seconda delle circostanze. Un altro gruppo, Rodina (Patria) si distingue per l’antisemitismo e il delirio imperiale.

Un altro gruppo ancora, i Patrioti Russi, va oltre e appare sempre più farneticante: «Noi lottiamo per la purezza della razza bianca, per la rinascita della Russia una e indivisibile e per una religione nazionale». Nel 1968, un certo Aleksandr Fetizov, alla testa di un altro movimento, chiamato Resistenza, dichiara pubblicamente che l’Europa si sta dirigendo da duemila anni verso il caos. Gli unici ad opporsi a questa deriva sono stati i popoli germanici e quelli slavi: «Hitler e Stalin vanno considerati come storicamente necessari e addirittura positivi». Queste idee avevano un certo seguito all’interno del PCUS (e ciò spiega l’involuzione futura di Zjuganov) ma furono sconfitti quando, nel 1977, la nuova Costituzione sovietica, dopo un lungo dibattito, mantenne il diritto alla libera separazione da parte delle singole repubbliche (la successiva separazione avvenne, così, legittimamente nel 1991). I russi continuarono a comandare per un po’ ma travestiti da “sovietici” tout court, tanto per salvare le ultime apparenze sempre più traballanti.

Poi, l’implosione (8 dicembre 1991). I termini “comunista” e “sovietico” uscirono dalla scena ufficiale. Tra contrasti, ammutinamenti, compromessi, riconciliazioni che segnarono duramente gli anni di Gorbačëv e El’cin, salì sulla scena l’astro di Putin.

E siamo arrivati nel XXI secolo. A conforto degli indipendentisti veneti diremo che circola con insistenza la voce secondo la quale il trisavolo di Putin, originario di Costabissara in provincia di Vicenza, fosse emigrato in Russia per lavorare alla Transiberiana. Se fosse stato toscano si sarebbe chiamato Puttini.

L’educazione civica, politica e militare di Putin si è svolta nel KGB, il famigerato servizio segreto sovietico, nel quale raggiunse (1975) il grado di colonnello. Credo sia utile per il lettore elencare di seguito le varie sigle adottate via via da questo servizio prima sovietico e poi russo, erede diretto dell’Ochrana zarista: 1917, Čeka; 1922 GPU; 1934, NKVD; 1954 KGB; 1991 FSK; 1995 FSB. Le incontreremo tutte nel prosieguo della nostra narrazione. Si tratta di una istituzione perversa ed efficiente (più dell’OVRA, sullo stesso piano della Gestapo e appena sotto il Mossad). Putin venne mandato dal KGB a Dresda, nella Germania orientale, dove lavorò per ben quindici anni a fianco della locale STASI fino al 1991. Implosa l’URSS, Putin tornò in Russia. È facile supporre che durante il lungo periodo tedesco, Putin entrasse in contatto coi superstiti ambienti “nazionalboscevichi” sopravvissuti alla fuga di Niekisch.

L’emersione di Putin da S. Pietroburgo, dove ebbe incarichi locali, è dovuta interamente, oltre che alla sua spregiudicatezza, ai suoi rapporti con El’cin. Dopo essersi “laureato” nel 1997 con una tesi copiata integralmente da uno studio degli americani William King e David Cleland, fu nominato, infatti, nel 1998, da El’cin, capo del FSB, erede diretto di un KGB da lui così ben conosciuto. Poi sarà primo ministro (1999), presidente della Federazione russa (2000 e 2004), di nuovo capo di governo e, nel 2012, ancora presidente.

Ecco dunque che il potere russo si salda alle rivendicazioni nazionaliste più estreme grazie a Putin: come vedremo in un prossimo articolo dedicato alla situazione di oggi e alla rottura con l’Ucraina.

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