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Latte di capra e slow food: che paghino loro se tanto gli piace

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di MATTEO CORSINI

La continua discesa del prezzo del latte pagato agli allevatori ha generato una forte protesta da parte dei pastori sardi, che hanno inondato le strade di latte ovino. Solidarizzare con persone che fanno un’attività che comporta molti sacrifici è una reazione spontanea, mentre sollevare qualche (ragionata) obiezione fa sembrare con ogni probabilità cinici o cattivi.

Di sicuro è comodo vergare articoli come quelli di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, pubblicato su Repubblica, nel quale l’autore (ovviamente) se la prende con i consumatori inconsapevoli e contenti di pagare i prodotti il meno possibile.

Secondo Petrini, quello che sta succedendo in Sardegna è “l’ennesima dimostrazione che il sistema di produzione, trasformazione, distribuzione e consumo del cibo in cui viviamo non sta funzionando e che un cambiamento di paradigma è più che mai necessario. La protesta dei pastori che scelgono di buttare il latte, di rinunciare al frutto del proprio faticoso lavoro piuttosto che svenderlo, è un atto simbolico estremo e disperato, che testimonia la necessità e l’urgenza di cambiare, adesso. È la lotta di chi riconosce di non poter più sottostare a una logica di mercato che strozza i lavoratori, di chi non vuole essere schiavo di una rincorsa al prezzo più basso, di chi è consapevole del tempo, della passione e della fatica che la pastorizia impone e che deve essere remunerata in maniera equa. Il latte ovino sardo, oltretutto, è il simbolo stesso di un territorio e la sua produzione è il frutto di una storia secolare, che ha plasmato lo spirito stesso di una terra e di un popolo e che non può scomparire per mere logiche commerciali”.

Dal mio punto di vista, l’unica cosa da valutare è se il prezzo di un determinato bene sia diminuito per motivi che esulano dal semplice eccesso di offerta rispetto alla domanda. In tal caso, occorre capire se si tratta di violazioni del principio di non aggressione. Tipicamente ciò è causato da provvedimenti legislativi o regolamentari che condizionano il prezzo, altrimenti un’azione legale sarebbe (teoricamente) in grado di fare giustizia. Da questo punto di vista non è rassicurante l’iniziativa assunta da Matteo Salvini (che pur essendo ministro dell’Interno ha deciso di occuparsi anche di questa faccenda, da vero McGyver) tesa a concedere sussidi agli allevatori.

Se si escludono violazioni del principio di non aggressione, purtroppo può capitare che il prezzo di vendita non sia sufficiente a coprire i costi di produzione. Succede a tutte le imprese che sono costrette a chiudere i battenti. Da questo punto di vista, che l’impresa produca latte o tubi di acciaio non fa una grande differenza, se non in termini soggettivi. L’alternativa alla logica di mercato è quella della pianificazione e fissazione dei prezzi (o di limiti minimi/massimi agli stessi) da parte del legislatore. A prescindere da ciò che si pensa in termini di limitazione all’esercizio del diritto di proprietà che ciò comporta, la storia ha fornito ampie prove dei disastri che ciò determina sul piano economico.

Ciò sembra non interessare Petrini: Trovare un capro espiatorio e un unico nemico è spesso la scelta più facile ma non sempre quella più giusta. Posto che la matassa è veramente ingarbugliata, il primo passo da compiere per poterla sbrogliare è iniziare a porsi le domande giuste ancor prima di puntare il dito contro qualcuno. Come in tutte le situazioni complesse, la condicio sine qua non per evitare di scadere in una polemica sterile è capire che non esistono risposte semplici”.

Fin qui nulla da eccepire. Ancora:  “Se si prova ad andare oltre l’impulsività del momento, si arriva allora a capire che le responsabilità sono sempre varie e molteplici. Da un lato le cooperative, nate in principio per supportare i pastori nelle loro attività, oggi comprano il latte ad un prezzo irrisorio che non permette nemmeno di coprire i costi di produzione. Ma perché? Perché il prodotto principe del latte sardo, il pecorino romano Dop, alla guerra dei prezzi in Gdo riesce appena a spuntare 8 euro al chilo. Tenendo presente che occorrono almeno 7 litri di latte ovino per produrre un chilo di pecorino, il conto è presto fatto. Non c’è margine per un’equa retribuzione dei pastori”.

Petrini non fornisce alcuna prova del fatto che il prezzo del pecorino romano Dop sia basso per motivi diversi da una offerta abbondante rispetto alla domanda. Né fornisce argomenti per censurare l’attività delle cooperative ed eventuali altri soggetti che portano il prodotto finito nei punti vendita della Gdo. Quindi non credo sia corretto definire iniqua la retribuzione dei pastori.

Insiste:Non solo, ma i consumatori? Se noi che facciamo la spesa non siamo consapevoli di che cosa significhi portare ogni giorno al pascolo gli animali, di che cosa significhi prendersi cura della loro salute e del loro benessere, di che valore abbia il mantenimento di paesaggi e territori, come possiamo sapere che cosa stiamo comprando? Senza questa conoscenza saremo preda dello specchietto delle allodole del prezzo più basso, e allora saremo i primi a gioire del fatto che il nostro formaggio preferito costi la metà dell’insalata verde in busta. La verità, quindi, è che tutti siamo coinvolti e che perché tutti possano vivere e lavorare con dignità dobbiamo essere vigili e responsabili. Non si può arrivare a costringere dei lavoratori a distruggere il proprio operato pur di farsi ascoltare. Se non cambia la mentalità dei cittadini, questa crisi sarà solo una di una lunga serie”.

Non mi stupisce che Petrini la pensi così. Però il suo punto di vista pare basato sul presupposto che la domanda del consumatore debba essere totalmente anelastica al prezzo del bene in questione. Quale sarebbe il prezzo equo? Quello che consente a tutti quanti di offrire un prodotto per la quantità che desiderano coprendo i costi? Oppure realizzando un profitto? In tal caso, quale sarebbe il profitto equo? E’ sicuro Petrini che a un prezzo superiore tutti i consumatori sarebbero in grado di consumare le stesse quantità di oggi? E se questo vale per i pastori sardi, perché non dovrebbe valere anche per chi produce tubi e deve chiudere l’azienda perché in perdita?

Se un consumatore da Slow Food può e vuole pagare un prezzo anche triplo nessuno gli impedisce di farlo. A patto che non pretenda che gli altri la pensino e si comportino come lui. Alcuni semplicemente la pensano diversamente; altri quel prezzo non potrebbero neppure pagarlo.

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6 COMMENTS

  1. Però al negozio i prezzi lievitano. Io ho mucche da latte. Il prezzo e quello di trent’anni fa. Le spese sono triplicate. La stessa cosa per i pastori di pecore. Qualcuno ci guadagna sopra alla grande.

  2. Le zone sottosviluppate siano in Italia o in Africa, non hanno bisogno di interventismo statale, ma di mercato per crescere. Di mercato da sotto due aspetti, entrambi molto difficili in Italia.. mercato come basse tasse, sburocratizzazione, deregolamentazione, e azzeramento delle barriere protettive, ma soprattutto mercato come mentalità. Finché non ci sarà questa disposizione mentale, non ci sarà speranza.

  3. Trattare il latte come i tubi di una acciaieria non è da liberali, è da incoscienti. Gli abitanti di un dato territorio hanno anche una funzione sociale ed è interesse dello stato che quei territori non si spopolino. Lo stato spende centinaia di milioni ogni anno per i dissesti idrogeologici in quanto ormai certe zone sono completamente abbandonate. Quindi non è meglio che usi quei soldi per sostenere le attività degli abitanti di dette zone che sono anche un baluardo contro i dissesti? Sia latte o altri prodotti agricoli poco importa.

    • La funzione sociale che hanno è non pesare sulle spalle degli altri, ergo evitare di aggredirli nel portafoglio per farsi mantenere!

  4. Credo che il problema sia questo: in economia di mercato se il prezzo del latte scende, diversi produttori chiudono perché lavorano in perdita, diminuendo la quantità prodotta a parità di domanda, il prezzo poi dovrebbe risalire attestandosi al livello ottimale. Tutto questo è teoria, nella pratica i produttori di formaggi importano latte dall’estero e i nostri produttori si devono adeguare per esempio, ad un prezzo “polacco” pur pagando tasse, utenze e materie prime a prezzi “italiani”. Ovvio che questo non ha senso, o si bloccano le importazioni oppure si mettono i nostri allevatori in grado di agire in parità con la concorrenza. Il discorso vale per molti settori, inclusa la manodopera, dove l’immigrazione incontrollata fa concorrenza sleale ai nostri giovani privati pure del salario minimo legale, che con frontiere chiuse e mancanza di manodopera (nel senso che esiste la piena occupazione e questa non è sufficiente a soddisfare la richiesta) sarebbe pure inutile….

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