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Lettera aperta di stefano bruno galli: perche’ votare no al refderendum

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di STEFANO BRUNO GALLI

Caro direttore,

referendum-4perdonami se rispondo con ragguardevole ritardo alla recensione che, sul “Miglio Verde”, hai dedicato al mio pamphlet contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi. È passato quasi un mese perché la campagna referendaria è stata davvero molto impegnativa: oltre cento incontri pubblici per oltre ventimila chilometri coperti in automobile. Un impegno generoso e determinato per sostenere le giuste ragioni del “no”. Che tu confuti con la consueta – ci conosciamo da tanti anni – acutezza di pensiero e di ragionamento.

La campagna referendaria volge ormai al termine, l’apertura delle urne è imminente. E allora vedremo quale sarà l’orientamento degli elettori rispetto a una riforma costituzionale incoerente e piena di contraddizioni, che non migliorerà il funzionamento delle istituzioni. Anzi, le farà funzionare peggio. Ciò rivela che nella testa del costituente – fa specie chiamare così questa classe politica, perché vengono subito in mente, solo per farne qualcuno, i nomi di Saragat e Terracini, Calamandrei e Valiani, Togliatti e Mortati, Einaudi e Croce, Ruini e Orlando – albergava solo una grande confusione. E che questi costituenti sono un manipolo di dilettanti allo sbaraglio.

Sono tante le contraddizioni insite nel disegno di riforma costituzionale. Il bicameralismo paritario esce dalla porta e rientra dalla finestra, per effetto delle sedici competenze bicamerali previste. La composizione e il ruolo di veto – rispetto all’attività legislativa della Camera – del nuovo Senato, senza l’adozione del mandato imperativo (unico strumento utile a garantire la rappresentanza e la tutela di interessi particolari quali sono quelli territoriali, quasi sempre contrapposti a quelli dello Stato centrale), senza la soppressione della conferenza Stato-Regioni e l’allineamento delle legislature regionali. Le nove procedure legislative, in luogo delle due – una ordinaria e una straordinaria, il decreto legge – della costituzione vigente, che dovranno essere disciplinate dalla Corte costituzionale. La revoca solo parziale delle competenze concorrenti fra lo Stato e le Regioni, che non supera i conflitti ma li riapre: Prendiamo – per esempio – il tema della Sanità. Allo Stato rimarrà una funzione legislativa generale e di indirizzo, alle Regioni la programmazione e l’organizzazione. Si abbassa il confine della competenza, ma non scompare. Prepariamoci ad altri mille e cinquecento ricorsi in corte costituzionale, che bloccheranno il sistema. Fermo restando che non è corretto – anzi è miope – trattare quelle realtà in cui il regionalismo ha funzionato e che sono più virtuose dello Stato centrale come quelle in cui non ha funzionato e che gravano sulla spesa pubblica.

Il rischio che il sistema vada in blocco – con tutte le conseguenze del caso, soprattutto sul debito pubblico – è davvero molto elevato. E il tuo ragionamento – se posso permettermi di riassumerlo, caro Gianluca – è semplice e lineare: con questa riforma, se “salta il banco” e il Paese va gambe all’aria, perché non valutare l’opportunità di votare “si”? Prima di mettermi a scrivere, sulla scia dell’indignazione, il pamphlet che tu hai recensito, anch’io me lo sono chiesto. E tuttavia, come pensava Gianfranco Miglio, sono convinto che sia opportuno e ragionevole provare tutte le strade per imprimere a questo Paese una svolta autenticamente federale, prima di pensare – ma solo in un secondo momento – a eventuali svolte di tipo secessionista e indipendentista. Svolte che – come sai, per effetto del mio passato, della mia cultura politica e della mia sincera e affettuosa amicizia con Gilberto – mi vedono oltremodo sensibile e favorevole.

Mi fa piacere registrare che tu condividi in pieno la mia affermazione in base alla quale sostengo che “il federalismo in questo Paese non s’è mai visto”. Proprio per ciò, per raggiungere l’obiettivo, bisogna votare “no” e riaprire la partita delle riforme, a cominciare dalla revisione dell’articolo 138 – che non funziona – e dell’articolo 5 della Costituzione. Sono questi due gli interventi preliminari da fare. Nell’articolo 138 – anche per onorare il dispositivo dell’articolo 1 della Costituzione – bisogna inserire l’iniziativa popolare tra i “motori” del processo di manutenzione costituzionale, visto che il potere costituente è un elemento indisponibile della sovranità popolare.

L’altra riforma da fare è quella dell’articolo 5. È molto importante che, nel testo della Costituzione, sia scritto che la Repubblica “riconosce” e “promuove” le autonomie locali, vale a dire sostanzialmente i comuni. Riconoscere le autonomie territoriali significa infatti vedere in esse un soggetto istituzionale reale e concreto che preesiste rispetto all’origine della Repubblica. Nello stesso tempo, promuovere le autonomie locali significa individuare in esse un valore assoluto in termini identitari: devono essere potenziate e valorizzate in quanto espressioni naturali nell’ambito delle quali si riconosce e si svolge l’esistenza del cittadino. La Repubblica adegua anche i principi e i metodi dell’attività legislativa alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Dall’articolo 5 discende – come sosteneva Gianfranco Miglio – la struttura fortemente centralizzata dello Stato italiano: l’idea sulla quale è costruito è infatti quella che nel centro istituzionale e politico, burocratico e amministrativo, cioè a Roma, risiedano tutti i poteri; poteri che generosamente e per bonomia possono essere decentrati allo scopo di promuovere l’autonomia, secondo un principio fortemente gerarchico. Bisogna rovesciare la piramide, invertire la rotta, partire dal basso, cioè dalle autonomie locali – e da tutte le competenze che possono assolvere – per poi salire verso il centro depositando in esso solo i poteri residuali.

La riforma costituzionale che andremo a votare il 4 dicembre, domenica prossima, è costruita sulla violazione di questo articolo, poiché la riforma non promuove ma comprime le autonomie locali. Non basta infatti dare dignità parlamentare a 21 sindaci su ottomila per salvare la faccia. Lo Stato, con la riforma, aumenta le sue competenze esclusive da 20 a 50, sottraendole al sistema delle autonomie; e nessuna competenza fa il percorso inverso, cioè parte da Roma e arriva al sistema delle autonomie. L’autonomia costituzionalmente riconosciuta agli enti locali ha una fisionomia eminentemente politica poiché l’elemento essenziale sul quale si reggono le autonomie locali è la sovranità popolare. Organizzato in corpo elettorale, il popolo – con la maggioranza che esprime alle urne – è titolare della prerogativa esclusiva di determinare l’indirizzo politico e amministrativo delle autonomie locali, che si configura dunque come l’autodeterminazione nell’individuazione delle finalità da perseguire in seno alla comunità; finalità che possono anche divergere da quelle della più vasta comunità statuale. Come spesso accade.

Però bisogna subito intervenire per rovesciare la piramide. Questa è la sfida che possiamo giocarci a partire dal 5 dicembre prossimo, ovviamente dopo la vittoria del “no”. Una sfida affascinante e suggestiva, nel nome della quale vale assolutamente la pena di consacrare il nostro impegno quotidiano. È questa la premessa per imprimere a questo Paese una svolta autenticamente federale: da qui – e solo da qui – passa la strada per il federalismo. Giochiamoci la partita: ci stai?

Con l’affetto di sempre.

Caro Prof, 

come avevo già avuto modo di illustrarti in altra occasione, la mia posizione espressa nell’articolo a cui tu fai riferimento voleva essere soprattutto una provocazione, ma nemmeno poi tutta fine a se stessa. Ammiro – ma tu sei uomo dello studio e della razionalità – la tua fiducia sul fatto che in questo paese disgraziato una riforma autenticamente federale si possa ancora fare. Io, purtroppo, sono diventato pessimista. Ma una cosa posso affermarla: ovunque veda uno spiraglio per ribaltare la situazione italica, io non mancherò di buttarmici dentro, pur con le poche forze che posso mettere in campo.

Gianluca Marchi

 

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2 COMMENTS

  1. Come non condividere il pensiero di S.B.Galli…

    Sono d’accordo anche sulla risposta del direttore G.L.M.

    Io avrei anche un altro punto da CANCELLARE la’ nella carta piu’ bella del mondo a detta el jolly e cioe’: l’una e indivisibile, se siamo in democrazia intesa seriamente.
    Vedete, dopo l’italia c’e’ la Cina che nel principio sostiene l’una e indivisibile e con forza.
    Dichiarazioni cinesi di ieri o l’altro.
    Altri non ne conosco anche perche’ a che serve girare per informarsi?
    A me basta questa per dire oggi: BASTA.
    Direi anche basta italia…
    Ma lo stato italia e’ su basi komuniste per cui…
    Preghiamo…

  2. L’Italia è irriformabile e, con la storia e la mentalità del sud, mai alcun serio federalismo sarà possibile. Pur essendo visceralmente indipendentista e antiitaliano, voterò convintamente NO. Un SI legittimerebbe il cialtrone fiorentino e il suo progetto che poi fa comodo a tutti i poteri forti, visto che il suo fare simil populista fa digerire al popolo bove ciò che altrimenti non digerirebbe. Con il NO si ritornerà nel “casino”? Benissimo! Si tratterebbe piuttosto, per un vero vovimento indipendentista, di profittare del “casino” a livello mondiale che l’ascesa dei “populismi” promette di creare. Ben venga il caos, forza creativa! Detto ciò, non mi riconosco minimamente nella attuale Lega (questo è ovvio) ma nemmeno negli ultramoderati (nei fatti se non nelle parole) timorati di Dio della Lista Maroni. Con tutto il rispetto!

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