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Indipendentismo, la presa di coscienza del problema

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padania-bandieradi GILBERTO ONETO*

Ogni tanto serve riprendere taluni principi fondamentali del nostro essere comunità, che qualche volta vengono con eccessiva leggerezza dati per scontati e acquisiti.

Molti anni fa la Lega era nata ed era vigorosamente cresciuta sulla base di alcune esigenze e di un progetto indipendentista conseguente e coerente con la loro risoluzione. Da allora molte cose sono cambiate e si ha come l’impressione che si siano un po’ persi i principi apodittici, le vere ragioni dello stare insieme e di un percorso politico condiviso.  Se si può affermare che per i più anziani quei principi restino solidi e immutati, lo stesso non è assodato per i più giovani che hanno bisogno di una immersione in un clima culturale che forse non hanno mai conosciuto, perché da quella prima fase  i principi dell’autonomismo e dell’indipendentismo padano sono stati dati per scontati e perciò non più ribaditi con sistematicità.  In questo può avere qualche giustificazione (che non è una giustificazione) la necessità di affrontare emergenze e tematiche  di altro genere più collegate con l’attualità politica ma c’è stata  anche una oggettiva “caduta di tensione ideale” da parte del partito Lega Nord. Anche per questo è importante riproporre con chiarezza temi che dovrebbero – per normale prassi – essere periodicamente e sistematicamente riproposti. La Chiesa cattolica – che la sa lunga in termini di comunicazione ma anche di fidelizzazione e riproposizione del consenso –ripropone letture tratte dai suoi testi fondamentali e in ogni funzione, riunione e occasione li commenta, da molti secoli. La cosa evidentemente funziona.

È perciò opportuno ravvivare la fiamma della nostra “religione indipendentista” ripercorrendone e riproponendone  periodicamente le basi,  i principi e le motivazioni.

Come funziona il processo di presa di coscienza e di formazione  del consenso verso il progetto di indipendenza?

Esso comincia, come ogni altra impresa umana, dalla presa d’atto di un malessere, dell’esistenza di disagi e problemi.  L’inizio di un percorso di guarigione si trova nell’esame dei sintomi della  malattia.

Dalla percezione del nostro disagio comunitario e dalla prima bozza di reazione sono nati parecchi anni fa i movimenti autonomisti che sono poi confluiti nella Lega Nord.

Nel nostro caso i sintomi della malattia sono rappresentati dal malessere derivante dallo sfruttamento economico e dall’umiliazione culturale, che si manifestano in concrete privazioni e nell’abbattimento della qualità del nostro vivere di individui e di membri di comunità civili.

Cominciamo a entrare nel dettaglio del percorso di presa di coscienza.

padaniaI cittadini delle regioni padano-alpine lavorano pensando al benessere di sé, delle proprie famiglie e comunità organica ma una preponderante fetta del prodotto del loro impegno viene sottratta, non per fornire dei sevizi – come dovrebbe essere all’interno di un normale “contratto sociale” – ma “gratis”, a fondo perduto, per il vantaggio di altri che non sono i membri disagiati della comunità con cui si è sottoscritto un patto di mutua assistenza e di ragionevole solidarietà, ma di gente di altre comunità, spesso neppure disagiata, o di ceti parassitari che lucrano proprio sul trasferimento delle risorse.

Non esiste onesta relazione fra il dare e l’avere. I servizi che la nostra gente riceve sono infatti del tutto inadeguati al prezzo che paga per averli. Il confronto con comunità europee che hanno lo stesso livello di capacità economica è davvero sconfortante. È sufficiente una rapida capatina al di là della ramina di Chiasso o in Austria o in Baviera per vedere come vive gente che ha un Pil che non è molto superiore al nostro, e che spesso è addirittura  inferiore.

Questo vale per i servizi sociali, per la qualità dell’ambiente, per la sicurezza, la giustizia, la sanità, la scuola: non c’è campo del vivere comunitario che non confermi per la nostra gente la drammatica constatazione che paga tasse a livello scandinavo (e oltre) ma che riceve servizi di “qualità” terzomondista. La prima percezione della malattia che ha colpito le regioni padano-alpine riguarda proprio questa evidente discrepanza fra quello che la nostra gente da e quello che riceve o, meglio, che non riceve. Il confronto sincronico e diacronico è sconfortante: altri vivono meglio di noi “pagando” assai meno per quello che ricevono e le nostre comunità  nel passato godevano quasi sistematicamente di un ben più favorevole bilancio costi-benefici.

Questo per quanto riguarda l’economia e la qualità dei servizi, tutti elementi molto concreti e facilmente “pesabili”.

L’oppressione però assume caratteri – se possibile – anche più odiosi nel campo della cultura e dell’identità:  dall’esterno si attenta ai nostri modi di vivere, ci si vuole trasformare in qualcosa di profondamente diverso da quello che siamo sempre stati e che – in condizioni di libertà – sicuramente vorremmo continuare a essere. Anche questo si evince da sintomi precisi: le nostre lingue naturali  sono umiliate e “tagliate”, ci vengono imposti modelli di vita estranei, sistematicamente i foresti ricevono trattamenti e attenzioni preclusi alla nostra gente, il sistema scolastico è percorso da temi, sistemi e accenti foresti, i posti di comando sono frequentati essenzialmente da foresti, la cultura e le identità delle nostre comunità vengono quotidianamente umiliate, ridicolizzate ed emarginate. Il mondo in cui viviamo non è – anche fisicamente – la coerente, naturale, libera e responsabile evoluzione dei suoi schemi nel tempo ma subisce mutazioni forzate e disorganiche che somigliano sempre di più a una sostituzione di padania2civiltà, a un etnocidio, alla soppressione di quello che è stato uno dei centri della civiltà occidentale con “qualcos’altro” che neppure gli somiglia e che spesso risulta antitetico. Non si sta assistendo alla normale evoluzione della civiltà padana ma alla sua radicale modificazione e sostituzione.

Per tutto questo viviamo quella che in linguaggio specialistico si definisce una situazione di deprivazione  economica e di deprivazione culturale, che sono – per il diritto internazionale – il più valido motivo di ribellione e di radicale cambiamento dei meccanismi istituzionali.

Per continuare con la metafora medica, i sintomi sono tali che non si può più far finta di non essere malati (ovvero non possiamo più sopportare che ci dicano che siamo perfettamente sani e quella che noi viviamo sia l’ineluttabile normalità dei tempi) e quindi non si può più procrastinare una cura.

Il disagio economico e culturale sono il sintomo più evidente, la diagnosi riguarda l’esistenza di una anomala situazione istituzionale,  una radicale riforma è l’inevitabile prognosi. Il malato è in grave pericolo di vita e serve una cura radicale, non più i pannicelli caldi di pseudo-riforme  ma un intervento  chirurgico risolutivo.

Serve che la nostra gente passi dalla percezione del disagio alla convinzione di aver bisogno di radicali interventi per arrivare a una “normale” condizione di salute. Questa cura si chiama indipendenza e tocca ai movimenti indipendentisti indicarla alla gente accompagnandola per gradini successivi sul percorso di piena presa di coscienza.

*Proponiamo una serie di interventi di “richiamo” dei principi dell’indipendentismo padano, giusto per non dimenticare mai perché esistiamo come comunità politica e per scongiurare strane derive che attardano l’indipendentismo, lo inquinano e lo trasformano in strani paciocchi. Si tratta di una serie di dieci “ripassi” che vengono contestualmente trasmessi anche su Radio Padania Libera il venerdì alle ore 17,00 e che sono accessibili anche in sonoro su YouTube…

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4 COMMENTS

  1. Siete proprio sicuri che una confederazione italiana funzionerebbe? Io per nulla. Al limite potrebbe funzionare quella che Bossi, sgangheratamente, definiva la “Grande Padania”. Solo se fosse una confederazione molto lasca e con pieno diritto di secessione. Ma una confederazione col luminoso sud mi spiace tanto ma non funzionerebbe, anche per ragioni etniche (non mi stancherò di ripeterlo) e sarebbe meno realistica della completa indipendenza. I caratteri nordici sono purtroppo recessivi, sia nel genotipo che nel fenotipo, e anche in una confederazione gli effetti deleteri di questa sgangherata unione persisterebbero. Salvini e i fascioitalici si preoccupano (legittimamente) del possibile etnocidio conseguente alle migrazioni extraeuropee ma le migrazioni pelasgiche hanno già portato a un mezzo etnicidio, ben più reale e forse reversibile, ma non è detto che lo sia. Non capisco perchè tanti indipendentisti non siano capaci di staccarsi dal concetto di Italia quando, prima della disgraziata unione, lombardi o piemontesi al sud erano spesso scambiati per francesi o inglesi e un piemontese, in Sicilia, si sentiva qualificare come francese e non italiano (leggete Aurelio Lepre, napoletano). E’ così difficile rinunciare all’italianità di Toto Cutugno, Al Bano, Totò e Sordi? Vogliamo tenerci il Rinascimento? Bene ma il Rinascimento è stato un fenomeno prima toscano (e in parte centroitalico), poi padano e in seguito europeo. Non italiano. Leonardo, Galileo, Colombo, Marconi o quasi tutti i rappresentanti del cosiddetto “genio italico” avevano fattezze ben poco mediterranee. Non dico sia obbligatorio avere occhi azzurri o capelli biondi (non li ho, anche se sono fiero di non essere mai riconosciuto come “italiano” all’estero) ma questi “italici” avevano pelle chiara, capelli castano chiaro, biondi o rossi, occhi azzurri. Dante, pur piuttosto scuro, aveva un cognome chiaramente germanico. Leopardi aveva occhi azzurrissimi. Dunque ci sarebbe molto da discutere anche sui personaggi e le etnie prese a simbolo di “italianità”. Come noto, potremmo anche discutere sulla stessa Roma arcaica (ma non solo). Quindi personalmente sono a favore di una politica audace ma realistica (se si vuole la secessione subito occorre essere pronti a usare le maniere forti e comunque difficilmente funzionerebbero), pronti ad approfittare delle eventuali contingenze favorevoli (si veda il caso delle ex Jugoslavia e Cecoslovacchia), decisi a conquistare sempre maggiori spazi di autonomia per le nazioni padano-alpine (se le altre li desiderano, costituiscano propri movimenti indipendentisti e se toscani ed eventualmente altri “italiani” europei vogliono aggregarsi ben vengano) ma soprattutto fermissimi nel rigettare il concetto di italianità e nel non ritenere l’Italia la nostra nazione (nemmeno in senso confederale). Chiamiamoci piuttosto “lombardi” e chiamiamo la nostra terra “Lombardia” (anche “Padania” è corretto ma non ha i precedenti e la dignità storica di “Lombardia”). Anche se Oneto non concorda, un’eventuale (lasca) confederazione che comprenda i popoli “italiani” (uso questo termine non condividendolo) le cui radici sono centro-nord-europee potrebbe legittimamente definirsi “Lombardia”.

  2. Sembra un controsenso, ma occorrerebbe un partito indipendentista nazionale che rappresenti le richieste indipendentiste , preventivamente concordate e pianificate, delle varie parti della penisola.
    Un partito che rappresenti , in larga parte, le indicazioni pratiche del Prof.Miglio.
    L’italia delle macroregioni.
    Un lavoro gigantesco ma ,se ben organizzato e preparato, utile.
    I siciliani, i sardi, il lombardo-veneto, toscana-umbria, etc.
    Un piano politico valido per tutto il territorio.
    “noi ci presentiamo per proporre la segmentazione amministrativa e politica dell’attuale stato italiano in tot porzioni, autonome, indipendenti e fra loro confederate per quanto riguarda i seguenti capitoli, tra cui la decisione di aderire o meno all’unione europea.”
    Può sembrare un controsenso ma, se gli indipendentisti, quelli veri, riescono a giungere ad un piano coordinato e condiviso in buona fede, i risultati non dovrebbero mancare.
    Occorre un liberale indipendentista che coordini e guidi la formazione e serve che gli accordi stipulati preventivamente siano scritti nel marmo.
    Prima l’dea elaborata, pianificata nei dettagli.
    Poi, tutti d’accordo, si parte.

    La lega da sola non va da alcuna parte, idem i veneti, e tutti gli altri popoli che mirano all’indipendenza.

  3. Ottimo articolo, almeno a parere mio. Grazie Oneto. Solo alcune mie considerazioni personali. L’errore marchiano di Salvini e dei caporioni leghisti è stato quello, come giustamente dici, di non avere mantenuto vivi i principi della “nostra religione indipendentista” e nel contempo fornire continue iniezioni di cultura storica finalizzate a demolire tutte le menzogne unitariste/risorgimentali che costituiscono l’alibi esistenziale di questo stato non nazione. Solo quando la sola visione del tricolore procurerà all’interessato un senso di fastidio fino a conati di vomito, si sarà raggiunto un buon risultato indirizzato alla costituzione di un solido credo indipendentista. Credo che il grande errore di Salvini e di chi lo ha preceduto sia stato quello di non aver mantenuto vivo l’obiettivo della trasformazione istituzionale dello stato italiota in stato federale su modello svizzero o tedesco facendo sempre balenare la strada dell’indipendenza qualora il partito trasversale dei parassiti italioti tentasse di boicottare l’obiettivo federalista o di ricondurlo al mantenimento dei loro interessi con un finto federalismo. Dopo di che credo anche che sia accettabile che su certe tematiche che costituiscono problemi per i cittadini dello stato italiota si possano fare pezzi di strada insieme a partiti o movimenti tutt’altro che federalisti o indipendentisti ma tenendo in evidenza il solco di separazione.Purtroppo, per la Lega, la strada intrapresa da Salvini non è quella che ho sopra indicata tanto è vero che non sembra interessato a promuovere il coagulo di tutti i movimenti presenti al nord.

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