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Una riforma che riduce le tasse ha senso se tutti pagano meno

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di MATTEO CORSINI

Tra le promesse fatte da Donald Trump durante la campagna elettorale dello scorso anno vi era quella di fare una riforma fiscale che avrebbe abbassato significativamente le tasse. Per ora non si è concretizzato nulla, tranne una bozza. Sulla quale sono già fioccate le critiche degli oppositori, talvolta con argomentazioni poco convincenti, a mio parere.

Per esempio, Federico Rampini, che scrive per la Repubblica dagli Stati Uniti, pare non avere ancora superato il trauma a quasi un anno dalle elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca. In merito al supposto calo delle tasse si chiede:E chi paga? Gli elettori democratici. Letteralmente. Uno dei capisaldi della riforma consiste in un gigantesco prelievo dagli Stati che l’anno scorso votarono per Hillary Clinton: California e New York. Il meccanismo è semplice e diabolico. L’Irpef americana è uguale per tutti a livello federale, ma i singoli Stati possono aggiungervi (o meno) un loro prelievo sul reddito. A New York che ha la sua addizionale Irpef municipale, i contribuenti addizionano tre “strati” di Irpef: l’aliquota federale, più quella dello Stato, più quella cittadina. La geografia fiscale descrive un’America spaccata in due proprio come nelle elezioni. Gli Stati delle due coste tassano di più e forniscono più servizi sociali, gli Stati di mezzo (quasi sempre repubblicani) tassano meno e offrono pochi servizi. Molti Stati a governo repubblicano come il Texas e la Florida non hanno addizionale Irpef. Sono in un certo senso paradisi fiscali, salvo farlo pagare ai cittadini con la carenza di trasporti pubblici e altri servizi essenziali. Per i contribuenti tartassati delle due coste esiste almeno un piccolo sollievo: le tasse locali sono deducibili dal reddito imponibile. Questione di buon senso oltre che di equità: altrimenti il fisco federale tasserebbe un reddito mai percepito, in quanto sottratto dal fisco locale. È la regola che Trump vuole eliminare, introducendo così una “doppia imposizione” sugli stessi redditi, che colpisce in modo pesante gli Stati governati dalla sinistra”.

Innanzi tutto credo sia utile ricordare che, nonostante il costante avvicinamento al modello socialdemocratico europeo, negli Stati Uniti ancora non sono arrivati, per lo meno nel caso dell’imposta sul reddito personale, a mettere tasse su altre tasse. Una pratica che in Italia è diffusa da parecchio tempo. Tanto per restare in tema di Irpef, le addizionali regionali e comunali sono, appunto, addizionali. Ossia aumentano il carico fiscale del pagatore di tasse.

Ciò detto, capita quasi sempre che una riforma fiscale abbia beneficiari a spese di altri. Il caso della eliminazione delle deduzioni da imponibile o detrazioni da imposta sono i più diffusi esempi di un aumento di tasse a spese di qualcuno mentre si riduce il carico per altri.

Da questo punto di vista una riduzione di tasse può essere definita tale solo se riguarda tutti. Ma per fare una riforma del genere è anche necessario ridurre la spesa pubblica, altrimenti ogni bilancio tende inevitabilmente a deteriorarsi, a maggior ragione quando si parte da situazioni iniziali non proprio floride.

Resta il fatto che il ragionamento di Rampini potrebbe anche essere visto diversamente, per esempio, da un texano. Il quale, non pagando addizionali, non beneficia di alcuna deduzione, di fatto finanziando i (presunti) servizi federali più di un cittadino della sinistrorsa New York con lo stesso reddito lordo. Quindi se si sostiene che la riforma sarebbe a carico dei cittadini che vivono in Stati governati dai democratici, che impongono addizionali a fronte di (maggiori?) servizi, si può anche sostenere che finora sono stati i cittadini che non beneficiano di deduzioni a sovvenzionare indirettamente parte di quei (maggiori?) servizi di cui, però, non godono.

Ogni medaglia, come sempre, ha due facce.

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