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Uno scaffale di libertà per smettere di pensare statalista

Da leggere

di GUGLIELMO PIOMBINI

pubb_libreria_del_ponte_bannerAlberto Mingardi ha colmato una lacuna curando per l’editore Liberilibri alcuni scritti di un brillante ma dimenticato autore dell’Inghilterra vittoriana: Thomas HodgskinCrimine e Potere. Due lezioni londinesi (p. 126, € 16,00). Nella sua esaustiva introduzione Mingardi dimostra che Thomas Hodgskin (1787-1869), spesso frettolosamente inserito tra gli scrittori socialisti, era in realtà un limpido esponente del liberalismo individualista britannico, in linea con John Locke, Adam Smith o Herbert Spencer. Hodgskin sviluppa in questi scritti una tesi acuta e originale sul legame tra potere e crimine. Egli nota, studiando le statistiche, che i reati contro la proprietà sono notevolmente calati dopo la riduzione delle tasse al termine delle guerre napoleoniche, e dopo l’abolizione delle leggi sui dazi del grano. Come mai? Le classi inferiori, spiega Hodgskin, prendono sempre come modello di comportamento le classi superiori, ma quando i ceti privilegiati impongono, attraverso il parlamento, tasse e norme a propria esclusiva tutela, allentano nella società il rispetto per la proprietà altrui. Poiché il popolo impara attraverso l’esempio, e coloro che stanno al vertice della piramide statale sottraggono a tutti denaro per decreto, i più poveri si arrangiano dandosi al furto. Il bandito di strada, chiosa Mingardi, si ispira al bandito stanziale (lo Stato). Sono dunque i detentori del potere, con il loro comportamento predatorio, a diffondere nella società gli atteggiamenti criminali.

Questa tesi era perfettamente applicabile all’Italia, dove le classi che controllavano lo Stato erano ancor più rapaci che in Inghilterra. Alla tragica situazione politica ed economica dell’Italia nei decenni dopo l’unità la Libreria San Giorgio dedica due nuove pubblicazioni, Libertà in tutto e per tutti di Francesco Ferrara (p. 308, € 15,00) e L’Italia nel 1898. Tumulti e reazione di Napoleone Colajanni (197 p. € 12,00), corredate da due ottime introduzioni del professor Paolo Luca Bernardini. Il volume di Francesco Ferrara (1810-1900), che fu il maggiore economista liberista italiano del XIX secolo, amico ed estimatore di Frédéric Bastiat, raccoglie i suoi scritti politici; il libro di Napoleone Colajanni (1847-1921) contiene una cronaca e un’analisi politica della repressione delle proteste popolari di Milano nel maggio 1898, quando su ordine del generale Bava-Beccaris l’esercito sparò sulla folla affamata facendo centinaia di morti. Entrambi siciliani, entrambi federalisti, ma l’uno liberale e l’altro socialista, Ferrara e Colajanni criticarono con asprezza le politiche autoritarie, centralizzatrici e stataliste del Regno d’Italia. Dagli scritti di Ferrara emerge la consapevolezza che gli Stati preunitari di antico regime, malgrado il loro carattere autoritario, avevano politiche economiche di gran lunga più liberali della cosiddetta “Italia liberale”, che di liberale non ebbe mai nulla, a parte il nome.

Leggendo i due volumi colpiscono soprattutto le analogie tra l’Italia di allora e quella di oggi. La strage del 1898, osserva Bernardini, presenta i tratti tipici delle stragi di Stato italiane, a partire dal numero incerto dei morti, la censura di Stato, la stampa asservita, la magistratura legata alla politica, una classe intellettuale prona al potere ed incapace di ribellarsi, le logiche di delazione e di regime. Allora come oggi gli italiani erano sottoposti ad una pressione fiscale senza uguali nel mondo, che era triplicata in seguito all’unificazione. A quel tempo tasse e accise gravavano sul pane nella misura di circa il 50 %, e la rovina dell’economia costringeva milioni di italiani all’emigrazione: proprio come oggi, con i centomila italiani che ogni anno si trasferiscono all’estero per lavoro. Al posto delle sanguinose repressioni del malcontento, oggi abbiamo l’induzione al suicidio di migliaia di artigiani, commercianti, imprenditori e loro collaboratori (tre al giorno in media), ai quali lo Stato fiscalista ha portato via i risparmi, l’azienda, il lavoro, la casa, la salute e infine la vita.

Per uscire da questo dramma occorrerebbero soluzioni radicali come quelle proposte dall’economista spagnolo di scuola austriaca Jesus Huerta de Soto, che ha pubblicato con l’editore Rubbettino una raccolta di ventidue scritti dal titolo La teoria dell’efficienza dinamica (472 p., € 29,00). I primi saggi del volume analizzano le differenze tra la teoria economica austriaca e quella neoclassica, mentre quelli successivi riguardano l’imprenditorialità, la crisi del socialismo e della previdenza sociale, l’ecologia di mercato, il nazionalismo liberale, la teoria liberale dell’immigrazione, la critica alla banca centrale e alla riserva frazionaria, l’etica del capitalismo. Vi sono poi tre saggi dedicati ai grandi maestri di Huerta de Soto (Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Murray N. Rothbard) e un paio di saggi storici su Juan de Mariana e gli scolastici spagnoli della scuola di Salamanca, per molti versi precursori degli austriaci.

Di particolare importanza sono i saggi dedicati alla teoria del liberalismo e ai suoi sviluppi futuri. Secondo l’economista madrileno occorre aggiornare la teoria liberale alla luce dell’esperienza storica del XX secolo e dei passi avanti compiuti dalla scienza economica. «Questa visione – scrive Huerta de Soto – deve iniziare dalla consapevolezza che i liberali classici hanno fallito nel loro tentativo di limitare il potere dello Stato e oggi la scienza economica è in grado di spiegare perché questo fallimento è stato inevitabile». L’anarco-capitalismo, secondo l’autore, rappresenta il futuro del liberalismo. Egli propone quindi di stimolare le riforme liberali attraverso una “strategia hayekiana”, e di smantellare lo Stato nazionale ricorrendo alla democrazia diretta.

L’ultimo saggio del libro è una sorprendente difesa dell’Euro da un approccio austriaco. L’Euro non è certo una moneta ideale perché, a differenza dell’oro, è pur sempre una valuta di Stato manipolabile dalla banca centrale, ma almeno ha costituito un ostacolo ai desideri inflazionistici delle classi politiche nazionali, che vorrebbero finanziare l’incontenibile spesa clientelare stampando moneta a ruota libera. L’Euro, pur con tutti i suoi gravi limiti, finora ci ha protetto dai tanti demagoghi che vorrebbero rimetterci in tasca le lire svalutate e piene di zeri di una volta.

Un altro economista spagnolo, José Antonio de Aguirre, ha pubblicato invece, sempre con l’editore Rubbettino, La lezione della crisi economica. Quello che è stato e quello che verrà (p. 178, € 13,00), ventisette brevi lezioni di attualità economica su temi monetari, bancari e finanziari. Come spiega il professor Lorenzo Infantino nella presentazione del libro, l’intento di Aguirre è quello di offrire un servizio al lettore, per aiutarlo a comprendere che la fase critica attraversata dalle nostre economie non è giunta all’improvviso ma è il risultato prevedibile di un assetto istituzionale sbagliato. L’autore spiega tutto questo con semplicità ed efficacia, giungendo a conclusioni molto forti: che i mezzi di pagamento che usiamo per le nostre transazioni non sono più “denaro” nel senso economico del termine; che la stabilità del livello dei prezzi non garantisce la stabilità delle istituzioni finanziarie; che le nostre banche centrali stanno mettendo in pericolo la solvibilità dello Stato.

Purtroppo nel dibattito politico e culturale le analisi rigorose di questo genere faticano ad emergere. Nei salotti radical-chic e nei comizi di Beppe Grillo vanno decisamente più di moda teorie strampalate come quelle della “decrescita felice”. Luca Simonetti smonta con bravura queste idee irresponsabili, propagandate da personaggi come Carlo Petrini, Serge Latouche o Vandana Shiva, nel libro Contro la decrescita (p. 259, 16,00). Queste posizioni hanno alcuni tratti comuni: la critica del capitalismo e del consumismo, la diffidenza per la scienza e la tecnica moderna, la nostalgia per un passato preindustriale, la convinzione che secoli fa (o per alcuni addirittura nel Paleolitico!) si vivesse meglio di oggi. Come scelte personali di vita possono essere abbastanza innocue, anche se bizzarre; i pericoli nascono dalle tendenze autoritarie di alcuni dei suoi proponenti, che vorrebbero imporre a tutti la decrescita attraverso politiche pubbliche. Ma uno Stato che decide cosa è necessario consumare per vivere e cosa non lo è, osserva Simonetti, è per forza di cose uno Stato totalitario.

IN COLLABORAZIONE CON LIBRERIA DEL PONTE

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