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Scozia e ucraina, quando l’immigrazione di stato denazionalizza un territorio

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di SERGIO SALVI 

ucraina«Libertà è poter scegliere la propria comunità». È un titolo recente di questo giornale: un giornale che ha fatto un tifo così acceso da apparire incandescente per l’indipendenza della Scozia. Purtroppo per tutti noi, gli scozzesi hanno scelto, con un referendum formalmente irreprensibile (e non bizzarramente on-line come accaduto altrove) di appartenere alla comunità inglese, sia pure travestita da britannica. E non a quella propria. Vuol dire che MiglioVerde ha preteso di interpretare in anticipo e senza cognizione di causa, la volontà degli scozzesi e di avere quindi sbagliato a giocare le proprie carte? Crediamo proprio di sí. L’ideologia “libertaria” che orienta troppo spesso il timone del giornale si è rivelata un ostacolo insuperabile per una visione indipendentistica corretta che dovrebbe andare oltre i dati del momento. Il ricatto economico e la tirannia dei luoghi comuni hanno infatti prevalso su un sentimento nazionale, pur vivace e vistoso, che è stato messo in secondo piano, in occasione del voto, dai cittadini scozzesi.

Va detto che una comunità non è la somma delle opinioni in proposito della maggioranza dei suoi componenti del momento, ma affonda nella cultura e nella storia del territorio che la connota. Ciò che è accaduto in Scozia rammenta la situazione dell’Ucraina. E anche dell’Italia.

A Bolzano, alla vigilia della prima guerra mondiale, gli italiani erano meno del 5% dei residenti e i tedeschi oltre il 90%. Oggi, gli italiani di Bolzano sono più del 70% e i tedeschi il 25%. Mussolini ha diligentemente imbottito quella città di innumerevoli famiglie e imprese venete e friulane e di corpose guarnigioni militari e burocratiche meridionali. E questo flusso è proseguito nel tempo.

L’immigrazione di stato è lo strumento più potente per denazionalizzare un territorio. Se ad essa si somma l’espulsione più o meno forzata degli autoctoni e la persecuzione capillare ed efferata delle strutture e delle caratteristiche tradizionali, la frittata è fatta. Oggi, la grande maggioranza dei bolzanini, in un referendum eventuale sceglierebbe in piena libertà di appartenere alla comunità italiana. Per fortuna, attorno a Bolzano e a pochi altri centri, si stende il Tirolo meridionale, che rimane il presidio irriducibile della “genuinità” del territorio. Un indipendentista serio, Gilberto Oneto, lo ha scritto e compreso.

Diamo allora un’occhiata al conflitto Russia-Ucraina, a proposito del quale MiglioVerde continua a perorare la tesi oltranzista dei russi, in assenza di ogni contraddittorio. E ciò è curioso per non dire sospetto. Ed è anche un caso di mala informazione. L’abilità comunicativa di Mosca e la sua premiata fabbrica di falsi, sono realtà ormai accertate.

Prendiamo in esame il Donbass. Alla fine del XVIII secolo, vi furono scoperti immensi giacimenti di carbone, collegati ad altrettanto immensi giacimenti di ferro nell’area continua di Kryvyj Rih. Un secolo dopo cominciò lo sfruttamento industriale di questa area, affidato dal governo russo al capitale straniero. Un capitalista britannico, Hughes, vi aprì una grande fabbrica attorno a cui costruì nel 1880 una nuova città, che prenderà il nome di Donets’k. Anche l’altra città divenuta famosa in questi mesi, Luhans’k, è stata fondata, nel 1870, da un industriale britannico, Charles Gascoigne, attorno ad una sua fabbrica immensa. Agli industriali britannici se ne aggiunsero di belgi, francesi, tedeschi e, finalmente, anche russi. Mosca sviluppò in questa zona dell’Ucraina il suo primo grande distretto industriale gestito con criteri moderni. Prima della fine del XIX secolo, vi erano già in funzione 29 altiforni e 17 stabilimenti siderurgici, cui seguirono quelli meccanici e manifatturieri.

La zona così repentinamente trasformata era caratterizzata da una produzione agricola che la rendeva il granaio dell’impero e, soprattutto, era compattamente abitata da ucraini. L’impianto delle fabbriche vi importò manodopera europea e soprattutto russa: i contadini russi erano stati appena espulsi dalle loro terre dall’abolizione della servitù della gleba avvenuta nel 1861 e si trasformarono in operai scendendo in massa più a sud. I contadini ucraini videro le loro terre sottratte dall’industria ma soltanto una parte di essi si impiegò nelle fabbriche. La maggioranza emigrò: in Siberia, in Asia centrale, perfino in America. Una parte dell’Ucraina etnica fu sottoposta a una prima denazionalizzazione, pilotata dalle autorità che vi imposero la lingua e la cultura russe. Ma il Donbass era, allora, ancora circondata da terre ucraine: a sud, a nord, ad est e ad ovest. Erano stati infatti i cosacchi ucraini, molti secoli prima, a popolare la steppa aperta che correva sotto la Rus’ di Kiev, dove scorrazzavano popoli turchi. Vi avevano istituito uno stato, l’atamanato, di cui in Italia si sa poco. Si deve a un cosacco, il vice-atamano Pylyp Orlyk, la prima costituzione scritta europea (1710), assai aperta e, diremo oggi, democratica, di cui i “libertari” dovrebbero fare tesoro per porla sullo stesso piano del patto del Grütli e della dichiarazione di Arbroath, faro della libertà scozzese, della quale non parlano mai, ma che era così facilmente e opportunamente citabile in questi giorni e avrebbe aggiunto frecce al loro (al nostro) arco.

Lo stato cosacco, in pratica indipendente, fu assoggettato dal principe lituano (principe della nuova Rus’, da cui il nome Bielorussia), poi dalla Polonia (confederazione polacco-lituana). I cosacchi ucraini si ribellarono ai polacchi nel 1648 e pochi anni dopo, adducendo la comune fede ortodossa, chiesero protezione a Mosca, che la concesse e con questa scusa si impadronì della metà orientale dell’atamanato, quella che va dalla foce dello Dnipro al mar d’Azov. Il resto fu smantellato dai polacchi (cattolici). Pur sottoposto alle interferenze russe, l’atamanato residuo, non poi troppo piccolo (80.000 mq), conservò la propria autonomia sostanziale. Si ribellò addirittura ai russi ai primi del XVIII secolo. I cosacchi vennero sconfitti e i russi li sottoposero alla loro occupazione militare e a un progressivo smantellamento. Nel 1764 lo stato cosacco venne infine assorbito amministrativamente e la carica di atamano abolita. Ma la loro terra rimase di lingua e di cultura ucraine. Anzi, molti cosacchi attraversarono il mar d’Azov e ucrainizzarono il Kuban. È soltanto alla fine del XIX secolo, con l’industrializzazione del Donbass, che i russi apparvero in massa nell’Ucraina orientale: senza tuttavia diventare mai la maggioranza della popolazione: si limitarono a inserire un cuneo in questo contesto.

Il censimento russo del 1897 stabilì che gli abitanti del Dobass erano per il 55,2% ucraini e per il 26,2% russi. Numerosi i tedeschi, i greci, i serbi, i romeni e molti altri. Durante la rivoluzione, i bolscevichi, maggioritari fra le maestranze dell’industria, ma minoritari nella regione, costituirono la repubblica sovietica cui fanno riferimento i secessionisti di oggi. Con la conquista del potere, i russi, travestiti da sovietici, dilagarono tutt’intorno. La grande industria divenne di stato: di uno stato socialista in bilico tra una dottrina internazionalista, rispettosa delle singole nazionalità, e una matrice inguaribilmente russa.

Nel 1922, con la costituzione dell’URSS e della repubblica sovietica ucraina, Stalin assegnò il Donbass all’Ucraina. Nel 1924, quale compenso territoriale, attribuì una vasta zona situata a est del mar d’Azov (Saktyj, Taganrig, Rostov), fittamente popolata da ucraini, alla repubblica sovietica russa, cui aveva già assegnato motu proprio l’Ucraina nord-orientale con Kurs’k e Voronez’.

Per il Donbass, durante lo scorrere del tempo, i censimenti sovietici stabiliscono comunque le seguenti percentuali:

 

anno     ucraini      russi

1926      60   %     31,4%

1959      56,6%     38   %

1989      51   %     44   %

 

Le dichiarazioni nei censimenti vanno interpretate con un certo acume in quanto accomunano tra loro i russi etnici (quelli trasferitisi fisicamente un secolo prima e i loro discendenti) con i nuovi e sempre più copiosi arrivi a partire dal 1945 nonché con i molti russofoni, che erano ucraini (e altri) convertiti alla lingua e alla cultura russa durante un secolo di dominazione. Va ricordato che nel 1831 il russo era diventato la sola lingua ufficiale della regione: va ricordato anche che il russo è stato codificato soltanto nel 1775, su ordine di Pietro il Grande, e da allora imposto progressivamente e spietatamente dalle autorità ai territori via via conquistati.

Secondo un rilevamento dell’università di Kiev del 2004, nonostante quasi dieci anni di indipendenza ucraina e i tentativi non granché convinti di salvataggio della lingua ucraina da parte del governo di Kiev, i russofoni dell’oblast di Donets’k erano il 93% della popolazione e quelli dell’oblast di Luhans’k l’89%. Ma parlavano, in famiglia, il surğik: lessico russo e sintassi ucraina. E i russofili? Ad una minorité agissante di russofili che ha proclamato la secessione con un referendum fasullo e vuole l’annessione alla Russia, molti russofoni si ritengono però ucraini e si oppongono a questa ipotesi. Va segnalato in proposito l’atteggiamento degli operai (russofoni) di Mariupil che si sono opposti in armi ai secessionisti, tra i quali razzolano numerosi provenienti da oltre confine col compito di fomentare e organizzare la sedizione. Il caso del “comandante” Igor Strelkov fa testo in proposito.

D’altra parte, molti indipendentisti scozzesi sono anglofoni: ma non certamente anglofili. La visione del contrasto Russia-Ucraina dipende in larga parte da una specie di ipermetropia. Non si pensa tanto ai russi in quanto tali e agli ucraini ma si predilige puntare in alto e avvolgersi nelle spire della geopolitica. I filorussi, che sono i russofili di Occidente, condividono paradossalmente l’odio di una certa sinistra e di una certa destra europee verso gli USA.

L’America è certamente l’incarnazione dell’imperialismo e del mondialismo. La fine dell’Unione sovietica le ha permesso di assumerne il monopolio. La nuova Russia sorta dalle ceneri dell’URSS cerca di contrastarla e ultimamente ha sfoderato di nuovo il proprio imperialismo, uguale e contrario, lanciando l’ideologia eurasiatica. Putin ha, da un lato, corroborato un regime capitalista, pilotato da oligarchi obbedienti e fondato sulla corruzione, limitando i diritti civili dei cittadini e incoraggiando un certo numero di omicidi politici in patria e all’estero; dall’altro ha investito sul mito sovietico di cui afferma la gloria e rivaluta le conquiste. È ispirato da personaggi come Aleksandr Dugin e Edvard Limonov, che hanno chiamato la loro ideologia “nazionalboscevica”. Si ispirano, congiuntamente, a Hitler e a Stalin, coniugano cristianesimo ortodosso e Islam e sognano di contrapporre all’America e al mondo atlantico un continente unito che vada da Dublino a Vladivostok: un  mondo che trasferisca la guerra santa di là degli oceani, incentrato ovviamente sulla Russia.

Stupiscono allora le accuse di Mosca al neo-nazismo ucraino, che pure esiste ed ha animato Maidan. Anche in questo caso l’etnia ha prevalso sull’ideologia. Nonostante tutti i suoi sforzi internazionalisti, il bolscevismo fu un tipico prodotto russo e il sovietismo è stato spesso la sua maschera. Quando, durante la seconda guerra mondiale, l’esercito ribelle ucraino affrontò l’Armata rossa, lo fece per combattere la dominazione russa e non il regime socialista. Fu dapprima alleato degli invasori nazisti, che avevano liberato dall’oppressione nazionale la sua patria ma quando proclamò l’indipendenza ucraina, i tedeschi ne imprigionarono i capi e dissolsero lo stato appena creato. L’esercito ribelle ucraino combatté Hitler e Stalin. E lo fece eroicamente e senza distinzioni. Torniamo alla storia.

I bolscevichi avevano dovuto riconoscere, sulla base della moderna scienza linguistica, che l’ucraino era una lingua diversa dal russo. Eppure è sempre rimasta, al loro interno, la convinzione che l’ucraino fosse un dialetto russo. Del resto, fino alla prima guerra mondiale, gli ucraini erano chiamati “piccoli russi” (i “grandi russi” erano naturalmente i russi tout court). Questa concezione è tornata a galla con la dissoluzione dell’URSS e sembra essere, in Russia, maggioritaria. È utile citare in proposito, ai lettori del Miglio verde, queste parole illuminanti di Egor Prosvirnin a proposito della sollevazione del Donbass: «Qui si tratta di una vera e propria guerra di liberazione come quella dell’unificazione italiana! E Putin si comporta come Vittorio Emanuele II, che riunì un popolo diviso in vari Stati in un’unica nazione». Piccoli e grandi russi ma tutti russi.

A favore degli ucraini si può rammentare che lo stesso Lenin aveva sostenuto: «La lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista può essere utilizzata, in certe condizioni, da un’altra grande potenza per i suoi scopi ugualmente imperialisti, ma ciò non può costringere quel movimento di liberazione a rinunciare ai propri diritti nazionali». I nemici dei miei nemici possono dunque essere amici miei. Fu la posizione iniziale dell’esercito ribelle ucraino.

È la stessa ragione per la quale il capofila della destra libertaria americana, il multiforme Ron Paul (un otorinolaringoiatra passato alla ginecologia), attacca Obama sulla questione ucraina e si qualifica come sostenitore oggettivo di Putin, di cui condivide la prassi politica nei confronti dell’Ucraina. E con lui, purtroppo, anche molti libertari nostrani.

Rimane da dire qualcosa sulla Crimea, che è stata presentata all’opinione pubblica come un campione dell’irredentismo in quanto “terra russa”.

In verità, la Crimea ha poco da spartire con l’Ucraina. Ha più da spartire con la Russia. È un’appendice della steppa aperta che correva sotto gli insediamenti slavi della Rus’ di Kiev, la quale sorgeva nella steppa boscosa. Questa steppa aperta, alla fine del primo millennio era (scarsamente) popolata da turchi seminomadi. Furono i cosacchi ucraini, a partire dal XVI secolo, a insediarvisi e a colonizzarla, trascurando però la penisola crimeana, che rimase terra turca.

Quando l’Orda d’oro, di cui la Moscovia (e non la Rus’ di Kiev) era vassalla, si sgretolò, nacque il khanato di Crimea (1427), che occupava anche la parte meridionale della pianura sovrastante la penisola. Il khanato cadde presto sotto l’influenza ottomana. Vi si formò una nazionalità turca che mantenne il nome di tartara, mutuato dall’Orda d’oro, e la propria religione musulmana.

Nel 1792, la Crimea venne annessa dall’impero russo ed entrò nella consuetudine letteraria dei nuovi dominatori come la mitica “costa azzurra” dell’impero. Ma i tartari continuarono ad abitarla, piuttosto indisturbati. Fu con la guerra di Crimea (1852-55) che la popolazione, schieratasi con gli ottomani contro i dominatori russi e sottoposta alla fame e agli stenti prodotti dalla guerra, dette inizio a una vistosa diaspora (Anatolia, Balcani, Caucaso) che ridusse il loro numero a quasi la metà. Cominciarono a venire sostituiti da sempre nuovi russi, accompagnati da una insignificante frangia di ucraini anch’essi sudditi dell’impero. Per farla breve, all’inizio della seconda guerra mondiale, i tartari erano ridotti a meno del 30% della popolazione della penisola. Ed erano rimasti musulmani. Molti di loro (ma non tutti) ebbero il torto di collaborare in armi con i tedeschi, che avevano occupato il loro territorio fingendosene i liberatori. Quando la Wehrmacht fu battuta dall’Armata rossa, che riconquistò la penisola, la vendetta di Stalin non si fece aspettare. Nel 1944, tutti i tartari crimeani vennero deportati in condizioni disumane (ne morì il 46% durante il trasferimento) in Asia centrale. La Crimea venne bruscamente e radicalmente detartarizzata. I russi presero le loro terre e le loro case. Di qui nasce il mito della Crimea come regione “da sempre” russa. Poi accadde l’inspiegabile a livello politico-amministrativo.

La Crimea era stata inserita come repubblica autonoma nella repubblica russa. Nel 1954, Krušëv decise di donarla alla repubblica sovietica ucraina, forse per farsi perdonare antichi torti e soprusi. Ma non fece tornare i tartari nella loro patria. Tutto ciò non giustifica le pretese ucraine sulla Crimea. E nemmeno quelle russe.

Soltanto nel 1991, con l’implosione dell’URSS, fu concesso ai tartari, deportati mezzo secolo prima, di tornare in patria. E i tartari cominciarono a tornare in una terra che non era più loro e si arrangiarono per continuare a campare, visto che le loro terre e le loro case erano state assegnate ai russi. Nel 1991 erano stato ridotti ad essere l’1,7% della popolazione. Oggi ne sono il 15%, a fronte di un 55% di russi e di un 25% di ucraini e tra russi e ucraini hanno mostrato chiaramente di preferire questi ultimi.

Il resto è cronaca di questi giorni e non vale parlarne. I lettori di MiglioVerde intuiranno facilmente come la si dovrebbe pensare in proposito.

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3 COMMENTS

  1. Sarà anche comunista, ma le cose che scrive sono estemamente interessanti. Cose di cui raramente si sente parlare. Cose che dovrebbero servire ad aiutare tutti noi lettori a farci una idea basata su fatti e storia altrimenti ignorati.
    A me interessa poco leggere le fandonie su cui si basano le dichiarazioni “ufficiali”, che, stranamente, non vengono mai spiegate.
    Le idee dell’estensore non ci piacciono? Liberissimi di pensarla in modo diverso, però dopo aver letto questo articolo abbiamo acquisito nuove cognizioni che potranno farci ragionare in maniera più seria e approndita.
    E per questo ringrazio di cuore lo staff di Miglio Verde.

    • @Bortolo
      Alcune delle poche cose interessanti che ha scritto Salvi in questo articolo, le ho lette sia sul vecchio giornale che su questo sito da mesi.
      Le accuse mosse da Salvi a Ron Paul, al libertarismo e ad alcuni membri della redazione sono contradditorie, del tutto anacronistiche e prive di fondamento.
      Voler difendere l’etno-nazionalismo di un Paese (l’Ucraina) che non è mai esistito è ridicolo, volerlo fare accusando la Russia di Putin è surreale, volerlo fare menzionando Scozia e Catalogna è grottesco (dato che sono Paesi multiculturali e favorevoli all’immigrazione).
      La storia è senz’altro utile conoscerla ma su Ucraina e il Donbass non bisogna fermarsi al Novecento, ai Tatari e a Stalin, bisogna andare anche un po’ più indietro di qualche secolo.
      Ad ogni modo non è con la storia o con i pregiudizi che si ottiene l’indipendenza, la secessione del Donbass, così come da altre parti, la decidono i viventi residenti sul territorio (siano essi etnicamente del luogo o meno) non i morti.

  2. E’ divertente che un comunista venga a dare lezione ai libertari. E’ come se l’Italia desse lezioni di Fisco alla Svizzera!.

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