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Alpini, quella loro preghiera e la polemica ferragostana

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ALPINI BZdi ENZO TRENTIN

Abbiamo volutamente lasciato passare un po’ di tempo affinché la polemica ferragostana – che ha interessato i mass-media dello stivale [VEDI QUI] – si acquietasse. La vicenda è nota: un prete trevigiano s’è opposto alla lettura della preghiera dell’Alpino in chiesa, ammenoché questa non fosse stata parzialmente modificata in senso più marcatamente pacifista. Gli Alpini, piccati, sono usciti dalla chiesa e hanno recitato all’aperto la loro preghiera, vecchia di circa 80 anni.

Diciamolo subito: è stata una bella manifestazione di orgoglio e indipendenza. L’unica, a nostra conoscenza, dopo quella registrata dal Corriere della Sera (12 maggio 1997) [VEDI QUIche tra l’altro scriveva: «Una protesta clamorosa. Gli alpini sfilano davanti alla tribuna d’onore, presenti Scalfaro e il ministro Andreatta. Hanno il cappello sul cuore invece che in testa, per manifestare il dissenso […] La forma più spettacolare di contestazione è attuata con la bandiera italiana dalle sezioni di Domodossola, Savona e Vittorio Veneto. Un enorme tricolore lungo cinquanta metri ripiegato nel momento del passaggio davanti al palco delle autorità. Un gesto seguito da un applauso del pubblico. Scalfaro appare irritato e subito il presidente dell’Associazione alpini, Leonardo Caprioli, al microfono deplora l’episodio, definendolo “inaccettabile e inaccettato”. Più tardi, dichiara che potrebbero anche scattare espulsioni. Il malumore delle penne nere si era fatto sentire subito, all’arrivo di Scalfaro, alle 10.30. Mentre la sfilata della settantesima adunata nazionale era già in corso, il presidente è stato salutato da applausi ma anche con fischi.»

Tuttavia, in quella “caserma” che sono un po’ tutte le associazioni combattentistiche e d’Arma, Associazione Nazionale Alpini compresa, non ci si rende abbastanza conto di quanto la retorica patriottarda imperi, e di come la stessa storia sia a volte travisata o  addirittura nascosta. Agli Alpini, per esempio, per decenni hanno fatto credere che il loro fondatore fosse il Capitano (poi Senatore) Giuseppe Domenico Perrucchetti. Costui, nel marzo del 1872 scrisse un articolo sulla “Rivista militare italiana” intitolato: «Considerazioni su la difesa dei valichi Alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale della zona alpina», che fu il primo passo per la formazione del corpo degli Alpini, di cui curiosamente egli non fece mai parte.   

È strano che per quasi un secolo nessun altro abbia sottoposto ad un vaglio critico le affermazioni di Perrucchetti. [VEDI QUI] Tutto rimase nell’ombra fino al 1985 quando lo Stato Maggiore, dopo aver rintracciato i documenti originali, fece pubblicare sempre sulla “Rivista Militare”, due articoli che ristabilivano la verità storica, attribuendo ufficialmente la paternità degli Alpini ad Agostino Ricci, chiarendo anche il motivo del tardivo riconoscimento. La spiegazione fu la seguente, poiché il Gen. Ricci era incorso in una dura polemica pubblica col Ministro della Guerra per questioni di spese militari, venne immediatamente rimosso dall’incarico di comandante del 2° Corpo d’Armata collocato in congedo e “punito” con il silenzio sui suoi meriti “Alpini” per molti anni, fino a che tutti ignorarono come realmente si erano svolti i fatti.

Non è l’unica marachella del potere costituito che gli Alpini subiscono. Premettiamo, sommariamente, che gli Alpini nascono dall’idea di un reclutamento valligiano. Gente di montagna che conosce a menadito i luoghi impervi dove vive. Vengono addestrati in funzione di primo contenimento di un ipotetico invasore che attraverso le Alpi volesse conquistare il Regno d’Italia. Si conta non solamente sulla loro conoscenza del territorio montano, ma anche sulla loro ovvia determinazione a difendere in primo luogo le case, le famiglie ed i beni, in attesa che il grosso dell’esercito si mobiliti ed intervenga.

Tuttavia il battesimo del fuoco delle truppe Alpine avvenne durante la guerra di Abissinia.  [VEDI QUI] Per cancellare la cocente sconfitta dell’agguato di Dogali dove nel 1887 caddero 413 soldati italiani su 500, il presidente del consiglio dei ministri Francesco Crispi spedì un secondo contingente di Alpini in Etiopia nell’inverno 1895/’96, dopo che gli insuccessi dell’Amba Alagi e di Macallé indussero Crispi a mandare i rinforzi richiesti al generale Oreste Baratieri, governatore della colonia. «Lo facciamo tanto per prova», queste furono le parole con cui Crispi giustificò quell’impegno un po’ improprio degli Alpini.

macroregione alpinaNato per la difesa dell’arco alpino, dicevamo, questo corpo di fanteria da montagna ebbe il suo “battesimo” nella battaglia di Adua in Etiopia, durante la quale patirono indicibili sofferenze nonostante l’iniziale fiducia nell’impresa, e dove all’alba del 1º marzo 1896 i 15.000 soldati del generale Baratieri, di cui facevano parte anche 954 Alpini, vennero travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di Menelik II. Dei 954 Alpini partiti dall’Italia sotto il comando del tenente colonnello Davide Menini, ne rimasero vivi solo 92 e lo stesso Menini fu decorato con la medaglia d’argento alla memoria. Il primo Alpino a cui venne assegnata la medaglia d’oro al valor militare fu il capitano Pietro Cella, nato a Bardi (PR), anch’egli morto in quella mattina ad Adua. Un epilogo onorevole nonostante la sconfitta fosse l’inevitabile conclusione di una missione organizzata male e frettolosamente.

Insomma gli Alpini non solo non difesero mai le valli natie, (l’Italia unita non fu mai assalita da nessuno; ha fatto solo guerre d’aggressione) essi furono anche impiegati “impropriamente” sin dall’inizio. Ciò nonostante, gli Alpini hanno sempre conservato le loro peculiarità: gente semplice difficilmente dedita all’aggressione, alla crudeltà o al saccheggio. Montanari cresciuti ed abituati alla fatica, come alla solidarietà. Ma proprio perché impiegati anche dove proprio non sarebbero stati adatti, vivevano la naja come una costrizione, un servaggio dal quale smarcarsi alla prima opportunità.

Gli Alpini, generalmente, non hanno mai odiato il loro avversario. Quelli che uscirono faticosamente dalle steppe russe nel gennaio del 1943 testimoniano come – in molti – dovettero la vita alla solidarietà dei contadini russi. Giulio Bedeschi in «Centomila gavette di ghiaccio» ce ne offre testimonianza: «Osservato da un ragazzetto russo infreddolito, Scudrèra stava togliendo dallo zaino un paio di lunghi mutandoni di lana; li dispiegò al vento, li appallottolò e se li ficcò sotto il cappotto; ma facevano troppo volume, li sfilò e se li arrotolò al collo, come una sciarpa. A questo punto si vide osservato dal ragazzetto, che sorrideva divertito. Scudrèra dispiegò nuovamente le mutande accostandole al ragazzetto, come a misurargliele: erano più alte di lui, il ragazzo rideva. Scudrèra allora gli gettò le mutande sulle spalle, e gli disse:
– To’, ciàpa, ma cresci in fretta; intanto le porterà to nòna. Bàbuska! Bàbuska! Capito?
– Karasciò! – esclamò il ragazzo russo. Fece un cenno di ringraziamento e filò verso un’isba chiamando: – Bàbuska! Bàbuska! – Nel correre, però, gli caddero sulla neve le mutande; mentre le raccoglieva e scappava, Scudrèra gli gridò dietro:
– Ciò, insulso! Tienle ben, chè le ga fàte me màma! E rivolto a Pilon: – Te ga visto? El me ga capìo sùbito! Son mi che non capìsso dove go imparà a parlar in russo!».

Gli Alpini sono imbevuti di solidarietà. Basta leggere la memorialistica per rendersi conto di come difficilmente abbandonavano un commilitone, anche se questo poteva costare la vita al soccorritore. E per semplicità ricorriamo ancora a Bedeschi: «…e i soldati si chinavano sui fagotti grigioverdi, li caricavano sulle slitte straripanti, dal colmo dei carichi uno scrollo del mulo li rotolava di nuovo sulla neve, i compagni s’accorgevano più tardi d’averli perduti, forse erano stati raccolti più addietro da altri Alpini; o forse no, perché il vento sollevava un polverio di neve e li ricopriva subito di bianco.
Restavano là, steppa.
– È un alpino del mio paese – disse di uno il furiere Clerici, e se lo caricò sulle spalle; col peso avanzò forse per cento metri ma poi il fiato gli si fece grosso; barcollò, cadde nella neve col cadavere, ritentò di sollevarlo, ricadde, imprecò, proseguì solo e roso da una rabbia cupa consegnò il portafogli del morto al capitano. Questi prese a braccio Clerici e camminavano insieme in silenzio.
– Come volete che faccia a capire? – disse angosciosamente il furiere.
– Chi? – domandò Reitani.
– Sua madre. Mi maledirà, signor capitano.
– Glielo diremo, che non potevi.
– È vecchia, non sa com’è la guerra. Mi vedrà sempre, sta di fronte a casa mia».

È un Dna che hanno conservato anche nella vita civile dove, particolarmente nel nord del paese, i gruppi della protezione civile sono prevalentemente costituiti da Alpini.
I veci non si sono mai tirati indietro verso tutto ciò che provoca sofferenza fisica. Questi uomini sono sempre riusciti a procurarsi quel tipo di “allegria” che si ottiene soltanto superando ostacoli a prezzo di dure fatiche. Ed è sorprendente che non lo fanno per spirito di patria, che spesso è stata matrigna con loro. Lo hanno sempre fatto per osmosi; essi hanno sempre avuto una sorta di spirito civico che lo Stato non gli ha mai fornito. Per questo l’hanno sempre chiamata naja.

È questo spirito civico che li fa affluire alle adunate, per riconoscersi e rincontrarsi in gaiezza, per scambiarsi nozioni ed informazioni da utilizzare quando, come volontari della protezione civile, saranno tra i primi ad intervenire, non mancando persino di mettere mano indifferentemente al manico del badile, come al proprio portafogli.

È questa la lezione implicita delle loro sfilate, nel loro inalberare con orgoglio quello strano cappello di volta in volta guarnito con la penna d’aquila o di corvo, nel rivendicare una “specificità” che nessun politicante è mai stato in grado di scalfire, al contrario sempre pronto (il politicante) a cavalcare il loro senso civico. Dobbiamo essere giustamente compiaciuti del fatto che, in uno Stato carente come quello italiano, riescano a sopravvivere uomini di questa specie.

Per quanto la loro terra sia mal amministrata, è gente che non farà mai una rivoluzione violenta. Molti di loro, probabilmente, non conoscono nemmeno il pensiero e l’opera di Thomas Jefferson, autore della dichiarazione d’indipendenza e terzo presidente degli USA, il quale scriveva in una lettera a James Madison il 30 gennaio 1787: «Malo periculosam libertatem quam quietam servitutem. Ritengo che qualche ribellione, di tanto in tanto, sia cosa buona e che sia necessaria al mondo politico quanto le tempeste lo sono a quello fisico. In genere le ribellioni fallite mettono in luce violazioni dei diritti del popolo che le hanno cagionate. Esse sono invero una medicina necessaria per la salute di tutti, prevengono la degenerazione del governo e aumentano l’attenzione per gli affari pubblici.»

Sì! Gli Alpini non si ribelleranno mai, la loro integrità morale non glielo consente. Essi preferiscono l’impegno concreto e disinteressato, alla vulgata corrente dei subalterni al cellulare o “friggi cervello a microonde”. E male non farebbe alla nostra democrazia un sistema di milizia, che molti paesi adottano, perché allora tutti apprenderebbero da subito come lo Stato siano i cittadini non le istituzioni “occupate” da quelle associazioni private che sono i partiti politici, troppo spesso dediti a cose diverse dall’eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia.

La Svizzera, per esempio, vive grazie al sistema di milizia. La Svizzera vive grazie all’impegno profuso da decine di migliaia di cittadine e cittadini al di fuori delle loro cerchie familiari e professionali. Essere in relazione gli uni con gli altri. Essere responsabili. Fare più di quanto è strettamente necessario, per sé, ma anche per gli altri! Questa forza insita nel sistema di milizia è un bene prezioso! Un bene che dovremmo recuperare e di cui avere la massima cura!

L’impegno che caratterizza il sistema di milizia si manifesta nella vita politica, nelle associazioni e nelle società, in campo sociale, nella cultura, nello sport, nella protezione dell’ambiente, nei corpi dei pompieri, e anche nell’esercito. E a questo punto auspichiamo che i veci Alpini prendano coscienza che i “rappresentanti” ed i politici in genere vanno controllati e giudicati per quello che fanno, non per quello che dicono. Qualche salamelecco in meno e qualche “moccolo” in più farebbe bene persino ai “rappresentanti” stessi, ma soprattutto al democratico vivere civile. A quando, dunque, la loro presa di coscienza del fatto che prima d’essere stati Alpini sono e rimangono cittadini “sovrani”?

Qui l’appassionante e competente descrizione di un  evento bellico degli Alpini sulle dolomiti nel 1915.

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1 COMMENT

  1. Il simbolo dell’ALPINITA’ è riassunto nel vecchio adagio :
    Didietro ai cannoni, davanti ai muli, lontano dai superiori.
    Che evidenzia l’enorme saggezza della gente di montagna .
    Quanto alla cosiddetta pacificità della gente di montagna ricordo che l’abolizione della leva obbligatoria è stata fatto con un preciso obbiettivo , in vista di un non lontano pericolo ……….

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