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Veneto: elezioni regionali tra leghismo, autonomia e indipendenza

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di ALESSANDRO MORANDINI

Le elezioni regionali di settembre in Veneto sono l’evento politico che ha portato non pochi ex indipendentisti veneti a riunirsi in un partito e a chiamarlo Partito dei Veneti. In parte si tratta di persone che anni fa si sono spese, perlopiù senza apprezzabili risultati, in prima persona nella lotta indipendentista; in parte di persone che appaiono molto più interessate ad occupare uffici pubblici italiani, usando lo strumento che ritengono essere il migliore per realizzare i lori personalissimi scopi (ma non ci si deve dimenticare che, in ogni essere umano, le motivazioni “egoistiche” e quelle di cui si esibisce il valore pubblico possono confondersi, anche agli occhi degli stessi soggetti agenti, perché queste ultime possiedono una qualità che alle prime manca e che in politica è indispensabile: l’apprezzamento sociale).

Oltre a questa offerta si devono ricordare gli indipendentisti che osservano con un certo scetticismo o con maturo disincanto ogni proposta elettorale, consapevoli del fatto che l’indipendenza del Veneto è una prospettiva tanto nobile quanto seria, e che la sua realizzazione dipende da variabili e circostanze del tutto estranee ai pochi punti percentuali ed al consigliere che potrà insediarsi in Regione. Tale consapevolezza, in realtà, sembra essere molto diffusa in gran parte del popolo veneto, che da anni consegna alla proposta elettorale indipendentista ininfluenti quote di fiducia. Ma è lo stesso popolo veneto che, in diverse altre occasioni, testimonia di conservare quell’anelito all’indipendenza tipico di ogni popolo che ha alle spalle una storia importante.

Questa contraddizione si spiega con il fatto che una cosa è desiderare l’indipendenza del Veneto, altra cosa è agire per realizzarla; in mezzo ci sono le valutazioni relative ai rischi, alle opportunità, alla natura dello scopo, valutazioni dalle quali dipende l’atteggiamento di ogni persona, l’interazione dei diversi comportamenti, la composizione e, infine, i risultati delle diverse interazioni ovvero ciò che si è soliti chiamare, sbagliando, il pensiero del popolo.

Le persone che non prendono in esame ciò che sta in mezzo, per esempio i candidati che, aderendo al PDV, hanno pensato di dover ricalibrare il messaggio indipendentista in senso autonomista (lasciando, in qualche rara dichiarazione pubblica, all’indipendenza il ruolo strumentale di minaccia; minaccia che oggi, declinata in referendum, non può certamente spaventare lo stato italiano); chi non prende in esame i meccanismi che stanno in mezzo, si diceva, è portato a liquidare la complessa faccenda con una formula stupida ed irrispettosa del popolo; chi non prende in esame la complessità di variabili e meccanismi dalla quale emerge quel concetto sociale che chiamiamo popolo, si presenta alle elezioni convinto che il popolo veneto, siccome non li vota, sia paragonabile ad un gregge di pecore.

D’altro canto alcuni dei soliti protagonisti del mondo indipendentista (mondo indipendentista dove, grazie al PDV e suo malgrado, si sta facendo chiarezza tra chi usa saltuariamente e strumentalmente il termine indipendenza e chi invece no), che ad ogni tornata elettorale italiana inventano soluzioni sempre più creative per dissimulare il fatto che, appunto, si tratta sempre di loro (ed alcuni, lo si ripeta, si sono nel passato distinti per la loro fede nella lotta indipendentista, per le loro idee limpide ed inequivocabili), interpretano gli scarsi risultati elettorali immaginando un popolo veneto che guarda con disprezzo le diverse manifestazioni identitarie che hanno come unico scopo la secessione dall’Italia.

Nell’ambiente del PDV si immagina quindi, contemporaneamente, un popolo-gregge belante servitore dello stato italiano, e un popolo schizzinoso che irride le molteplici e colorate manifestazioni del conflitto tra stato italiano e indipendenza del Veneto. Interpretazioni dissonanti che dimostrano una scarsissima comprensione di cosa è un popolo ed hanno condotto le due suddette categorie di persone (gli ex-indipendentisti traditori della causa e gli indipendentisti che non hanno mai avuto una causa se non la necessità di occupare uffici politici dello stato italiano) alla fondazione del Partito dei Veneti.

L’errore e la dissonante interpretazione però riguarda, probabilmente, la maggior parte degli interessati; perché nell’ambiente PDV, per come si è andato generando, sguazzano, come in tutti i partiti, anche pochi individui che pensano di trar beneficio dal basso livello di discussione sociologica e di ottenere così le briciole lasciate dalla Lega di Salvini. Inutile sottolineare che queste persone non hanno a cuore il destino dell’indipendentismo e neanche quello del partito. Ed è anche perfettamente inutile chiedere i nomi ed i cognomi di queste persone perché, affinché l’indipendentismo decolli, non sono i nomi delle persone che devono necessariamente cambiare, ma sono i pensieri che le persone incarnano, le motivazioni, l’intelligenza diffusa, il grado di discussione che devono maturare: ogni persona, indipendentemente dal suo passato e dal suo presente, può contribuire al decollo.

La Lega di Salvini in Veneto riesce a tenere insieme, miracolosamente, il diffuso desiderio di indipendenza dei Veneti e la necessità, tutta interna al partito della Lega, di essere potentemente presenti nelle istituzioni italiane. Lavoro che non può riuscire al Partito dei Veneti per un motivo semplicissimo, che non sfugge agli elettori ma solo a chi, patendo la cosiddetta sindrome del fratello maggiore, finisce per pensare agli elettori come a delle persone facilmente manipolabili, poco inclini al ragionamento. Il Partito dei Veneti è oggi composto da persone che da almeno un decennio tentano in qualsiasi modo di avere una quantitativamente decente rappresentanza in consiglio regionale.

Da decenni non ci riescono; e da decenni non riescono a fare altro, quando si parla di elezioni per cariche istituzionali italiane, che cambiare nomi di partiti, produrre messaggi politici ambigui e contraddittori, ingaggiare battaglie personali entro contesti che possono assicurare, al massimo, qualche stipendio statale. Una storia che viene presentata nel dettaglio da Giovanni della Valle, ma che moltissimi Veneti conoscono in estrema sintesi. Per quale motivo un elettore dovrebbe pensare che queste persone e questi metodi possano promuovere le azioni necessarie a soddisfare il desiderio di indipendenza?

Così il successo elettorale della Lega e l’insuccesso elettorale del Partito dei Veneti è da considerarsi, tra le altre cose, conseguente alla sottovalutazione dell’intelligenza dei Veneti, all’assenza di valutazione dei meccanismi psicologici e sociali che determinano le scelte risultanti in un popolo, e ad una sopravalutazione ancor più grave: la sopravalutazione di sé.

Se dopo le elezioni, archiviati i vari prevedibili tentativi di giustificare o di nascondere l’insuccesso, in ciò che resterà e in ciò che si riuscirà a recuperare del mondo autenticamente indipendentista si potrà sviluppare e delineare con chiarezza non più un’astratta e vagheggiata rappresentanza del popolo veneto, ma una ben più concreta rappresentanza del desiderio di indipendenza dei Veneti, e con ciò un movimento composto dalle azioni individuali e collettive che trovano nella espressione e nella soddisfazione di questo profondo desiderio la loro ragione; se questo sarà o non sarà possibile al momento non si può prevederlo, ma si può prevedere che senza quel movimento anche le singole avventure elettorali delle varie categorie di ex indipendentisti, di indipendentisti pentiti, di cripto indipendentisti e di semplici sfaccendati che ambiscono solo ad essere stipendiati, in qualsiasi modo, dallo stato italiano, giungeranno dopo anni al tramonto e saranno presto paragonate, queste avventure,  a quelle narrate in un celeberrimo racconto scritto da uno scrittore fiorentino nel 1883, ma senza lieto fine.

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